il cinema americano ripete se stesso da sempre. la famosa battuta di irving thalberg ("i film non si fanno, si rifanno") è continuamente verificata.
come spesso accade però la ripetizione è verso il modello basso, non quello alto (ma questo, sostengo, è l'applicazione della legge naturale di cui al secondo principio della termodinamica: il calore passa dal corpo caldo al freddo, il sistema cede calore, il sistema tende all'equilibrio, il sistema è entropico. massimo disordine)
e quindi accade che nei film americani vedi sempre le stesse cose, gli stessi gesti, le stesse facce, gli stessi movimenti.
e vedi le stesse situazioni, gli stessi personaggi, gli stessi schemi.
non è il caso di scomodare christian metz, i giovani turchi, barthes, eisenstein o bazin, i quali tutti hanno già detto tutto e molto meglio di me.
la piccola riflessione che le mie scarse risorse mi consentono verte intorno alla fruizione superficiale. ovvero, non è tanto la morfologia del racconto, non è il linguaggio, non è la sintassi del film che condividono matrici uniformi, quanto, oggi, il semplice fatto estetico.
data una situazione, per esempio la coppia che litiga, vedremo: lei sul divano, lui in piedi. lei muove le braccia dalla testa verso il grembo, lui porta le mani alle tempie e le allunga verso di lei. e così via.
nell'era del digitale, anche l'animo umano è stato discretizzato.
un numero discreto di emozioni e quindi di espressioni è molto più facile da gestire.
sofferenza. paura. gioia. imbarazzo. una sensazione, una faccia.
identico discorso per i movimenti di macchina, per il montaggio, per la produzione.
ecco perchè non vado più al cinema.
il cinema è divenuto un format.
mercoledì 18 luglio 2007
il conformismo/3
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