mercoledì 18 novembre 2009

fotografie

sono fotografie.
la fotografia, con la quale l’uomo riesce finalmente a cogliere, a capire se stesso, è gesto ad un tempo sublime e lugubre.
il cinema è barbaro, a questa stregua, perché si prende gioco di noi e della persistenza retinica.

essere, sappiamo, è stare fuori dal tempo.
ciò che è, è.
ma anche noi, anche noi siamo coloro che siamo.
anche noi.

l'essere è ingenerato e imperituro, tutto intero, unico, immobile e senza fine
(Parmenide, Sulla natura, 28, 8)

le forme dell’arte, per esempio.

sembra essere un passo, una progressione, una novità, una scoperta, una invenzione, un concetto, un guizzo.
non è nulla di tutto questo.
non esiste l’idea, non esiste il nuovo.
è una fotografia.
un uomo dipinse una madonna con bambino, un altro una battaglia, un altro ancora una chiesa e un santo. un altro uomo spruzzò vernice a terra, un altro dipinse una scatola di legumi.

non fu “un” uomo a inventare il fuoco, o la ruota, o la macchina a vapore, o il telegrafo.
né alcuno inventò la teoria della relatività.
essa è sempre esistita, come il fuoco, la ruota, la madonna col bambino e la zuppa di legumi. e il resto che saremo costretti a vedere.

dalla prigione dell’esistenza, qui, ora, in ogni tempo e in ogni luogo, sfugge solo ciò che non può essere fotografato.
la divina commedia, la nona sinfonia non appartengono al regno dell’arte, dell’assoluto, del sublime.
non appartengono all’uomo, condannato all’eternità, ma alla memoria.
esse non sono, muoiono.

per questo noi, poveri immortali, le amiamo.