martedì 21 dicembre 2010

futuro

con il contributo di W.B.

Oggi esaminiamo una canzone, una canzone le cui parole sono più famose della musica.
Si tratta di “Futuro”, interpretata da Orietta Berti e scritta da Umberto Balsamo e da Luciano Raggi, presentata al festival di Sanremo del 1986 (ove si piazzò onorevolmente al sesto posto, dietro a mostri sacri come Toto Cutugno e Marcella e davanti a nomi del calibro di Scialpi, Mango, Fred Buongusto, Righeira e perfino un giovanissimo Zucchero).
La musica (l’armonia, per la precisione) copia vergognosamente un grande successo del 1984 di Gianna Nannini, “Fotoromanza”. Ma di essa, oggi, non ci occuperemo.
Il testo è invero assai complesso e a tratti davvero criptico, esoterico. Alla lettura, nella sua integrità, si rivela prestamente quale inno doloroso, vago del passato, scorato dal presente, timorosissimo del (appunto) futuro. Tentiamo ad ogni modo una analisi.


Il giornale che ci tortura

Un incipit forte. Una dichiarazione d’intenti, concettosa e aspra, che va puntualmente sezionata.
In primo luogo, l’articolo, determinativo, a indicare la classe. Non è un giornale a torturare, ma tutti i giornali, indiscriminatamente. Va scartata da subito (non foss’altro che per l’uso della minuscola) l’ipotesi di un riferimento al “Giornale Nuovo”, all’epoca una delle testate più lette del Paese.
Il sostantivo. Trattasi dunque della carta stampata. Ma è la notizia a torturare, o il mezzo di veicolazione? Qui il primo, importante dubbio. Sì, perché se a tutta prima potrebbe sembrare (l’esegeta avvertito sa che l’Autore, ne avremo prova tra poco, conosce le figure retoriche) che siano i semplici fatti raccontati sui giornali a provocare patimento, non erra l’interprete che individua proprio “nel giornale”, col suo modo di “fare notizia”, la vera cagione dell’ingiusta punizione.
E qui, lo storico ha un primo sussulto. Siamo alla fine del 1985 (il pezzo, preparato per il festival che si celebrò dal 13 al 15 febbraio del 1986, fu certamente scritto, per essere presentato alla direzione artistica, in ossequio al regolamento, almeno qualche mese prima). Siamo nella famosa “era Gorbaciov”. Il nuovo presidente del PCUS appena due settimane dopo il festival parlerà al XXVII Congresso e darà il via alla glasnost e alla perestrojka. Il disgelo USA-URSS. Perché tanto terrore, tanto dolore? All’orizzonte si intravede un’epoca felice, il disarmo, la fine della guerra fredda. Di lì a pochi mesi Reagan e Gorbaciov si incontreranno per dare vita ad importanti accordi per la riduzione degli armamenti. E invece, la tortura.
Il pronome relativo. Incappa l’autore in un primo, ancorché veniale, errore sintattico. Sì, perché quel “che” appare ahinoi, alla lettura del secondo verso, al quale è necessariamente e logicamente congiunto, un mero strumento metrico; mancava, in altre parole, una sillaba per finire il verso. Altrimenti si perderebbe tutta l’importanza del Sudafrica, di cui in appresso, che non può certo essere considerato un semplice quadrisillabo.
Il pronome personale. La forma atona della quarta persona (il famoso “ci”), dà per scontato, senza discussione, e tradendo un pizzico di superbia, che la tortura del giornale è tale per tutti noi. E’ un fatto che ci riguarda tutti. Una tortura mediatica indifferenziata.
E quindi il verbo. Un tormento universale; un supplizio, cui non possiamo sottrarci. Non possiamo sfuggire al giornale e ai suoi malefici, ci tocca subire, ci tocca patire. E’ il giornale che ci tortura, la tortura, appunto quotidiana, immancabile, ineluttabile, come il sole che sorge ogni mattina.

il Sudafrica fa paura

Questo è un passo che sempre ha creato grossi problemi all’esegeta.
Lo storico, di nuovo, e con lui il sociologo, forse, sono chiamati a interrogarsi. Perché il Sudafrica? E, di nuovo, perché tanta paura? Certo, l’apartheid, e il caso Mandela. Ma la paura, perché? E di che cosa? Paura di un’epidemia di razzismo galoppante? Paura di un Sudafrica bellicoso e sfrenato, senza limiti né leggi? O forse, per altro verso, paura di un’invasione del Negro? Il dubbio, lacerante, resta.

mentre il giorno diventa sera
in casa mia


Si tratta evidentemente di una metafora, visto il riferimento alla casa, altrimenti inutile. Il giorno, sappiamo, diventa sera un po’ ovunque. La casa è quindi l’animus, il sentire interiore. La casa (l’alma) imbrunisce, si oscura, e con le tenebre i lugubri presagi, i dubbi, le paure, trovano campo, prendono, come si dice, piede; nel buio, col buio, prendono vita i pensieri più cupi (il Sudafrica, appunto, il giornale); e quindi il mondo che si fa brutto, pericoloso, spaventoso, turba lo spirito di chi leva il suo canto, canto purtroppo rotto da questa insanabile inquietudine.
Si chiude con questa icastica, ardita allegoria, la prima strofa del brano. In queste poche righe c’è già tutto. Poche parole, ma immagini e questioni amplissime.
Proseguiamo. Ci attendono molte onde da solcare.

E i ragazzi son sempre quelli
che si sentono forti e belli


Un primo problema lo dà il pronome. Non è dato comprendere se, di nuovo, il “che” sia stato piazzato solo per esigenze di metro, oppure se sono da considerarsi ragazzi solo coloro che sempre si sentono forti e belli. Questa interpretazione salva la forma grammaticale, ma a discapito tuttavia, a nostro avviso, del senso. Più verosimilmente l’Autore intese dire che i ragazzi si sentono sempre forti e belli (originale, in ogni caso, l’endiadi) in quanto ragazzi; ma in questo caso, quel povero “che” lascia non poco amareggiato l’esegeta.
Un secondo problema si pone sulla questione del “forti e belli”. In primo luogo, non è vero che i ragazzi si sentono tali. I ragazzi (certo non tutti, ma molti) si sentono anche sfigati, insicuri, maldestri, bruttini, ciccioni, brufolosi, inadeguati, eccetera. Dare per scontato è un errore che il Nostro Autore commette più di una volta. In secondo luogo c’è il “sempre quelli”, che sembra proprio una sentenza da ottuagenario, l’occhio stanco che vede la giovinezza lontana e tutto un po’ uguale. Insomma, un mezzo pasticcio.

in un mondo che cambieranno
e andranno via.


Ecco, qui siamo di fronte a quello che si chiama super-anacoluto. Oppure, tragico errore sintattico, se si preferisce. La congiunzione è davvero assassina.
Dunque i ragazzi cambieranno il mondo e, dopo averlo fatto, andranno via.
I ragazzi si sentono forti e belli; cambiano, sentendosi tali, il mondo, e poi lo lasciano lì.
Si fatica a cogliere appieno il senso di questa strofa: andranno via in quanto, come tutti, se li porterà via la Nera Signora? Andranno via in quanto si saranno stufati del mondo che hanno purtuttavia contribuito a cambiare? Andranno via in quanto non c’è altro da fare, una volta compiuta la metamorfosi dell’orbe? Andranno via allora in quanto il destino li chiama ad altre imprese, forti e belli come sono? Perché, perché vanno via, questi nostri fiorenti virgulti? Cosa li chiama? Cosa li spinge? Sono forse, i nostri rigogliosi palmizi, giovani eroi classici che sprezzano le Moire? Sono forse essi biondi muscolosi salmoni che, guidati da istinti primordiali, vincono la corrente per poi lasciarsi allontanare, esausti, verso alvei sconosciuti?

Ma c'è un re con un gran cavallo
che decide quando si balla
e la storia che si ripete è sempre quella.


Ecco presentarsi il serissimo problema della congiunzione avversativa. Nei passi che precedono, lo scenario descritto è assai negativo, financo distruttivo; ci si attenderebbe, dunque, una ‘svolta’ in positivo (iusta la congiunzione), dunque questo ‘re’ che, quale deus ex machina, cambierà la situazione in meglio. E invece no: non solo il re non cambia proprio niente in meglio, ma sarà evidente in prosieguo che si tratta di una figura del tutto negativa, e rende la situazione se possibile ancor deteriore.
Meglio sarebbe stato, allora, dar la stura alla frase-chiave della canzone, perché questa è effettivamente la frase-chiave della canzone, con una congiunzione semplice (‘e c’è un re…”), eppure ricca di significati.
Cionondimeno, noi esegeti, prima di arrenderci alla critica e alla condanna, partiamo dal presupposto che i parolieri di Orietta Berti sapessero molto bene quel che scrivevano. Andremo alla caccia, dunque, di una interpretazione che garantisca un senso preciso alla congiunzione avversativa.
Ma, prima, occorre entrare a spada sguainata nel mistero, e, per così dire, scardinarlo.
Le scuole di pensiero, sul difficoltoso trinomio “re-cavallo-ballare”, sono almeno cinque.
Vediamole nel dettaglio.
1. Sgombriamo subito il campo dalla teoria più strampalata, la cosiddetta ‘teoria collegazionista’. Secondo alcuni il “cavallo” sarebbe il cantautore pugliese Domenico (detto Mimmo) Cavallo, ben noto per il brano “Siamo meridionali” (1980); nel 1982 il Cavallo pubblicò, per Fonit Cetra, “Stancami, stancami musica”; in seguito, evidentemente e in effetti stancato dalla musica, non pubblicò nulla per vari anni. Secondo la scuola di pensiero che qui ci occupa, Orietta Berti, proprio per incitare l’amico Mimmo a non desistere, avrebbe inserito un messaggio criptico e criptato in “Futuro”, indirizzato proprio a lui, ma non solo; il ‘re’ sarebbe ovviamente Pippo Baudo, e Mimmo sarebbe definito ‘gran’, quale incitamento a puntare decisamente sulla figura del cantautore di Lizzano (TA). Secondo tali fantasiosi esegeti, Mimmo C., uscito dalla depressione compositivo-artistica, avrebbe addirittura risposto, a tale messaggio criptico di Orietta, tre anni dopo, nel 1989, pubblicando, quale occulta forma di ringraziamento, ‘Voglio un futuro possibile’ In sostanza Pippo Baudo, (re del Festival), avrebbe avuto la possibilità di decidere di farci ballare, con un “gran cavallo” su cui ‘puntare’. Non risulta, tuttavia, che lo showman della piana etnea abbia mai avallato tale articolata interpretazione. Peraltro, non crediamo che Orietta Berti abbia voluto inserire un interesse personalistico in un’ode orientata al futuro dell’intero pianeta. Non è chi non veda, tuttavia, come tale interpretazione sia abbastanza in linea con il concetto della danza (seppur il genere musicale di Mimmo Cavallo non sia propriamente ballabile).
2. Un’altra teoria, c.d. “mitologica” è sostanzialmente tripartita. Ben tre infatti sono i re muniti di gran cavallo che di volta hanno incrociato le simpatie dei parrucconi: Una prima vedrebbe nel “re” il mitico Ulisse (re di Itaca), e nel gran cavallo il cavallo di Troia, il quale, in effetti, era assai grande, tanto da contenere al suo interno svariati soldati. A favore di tale interpretazione militano il tema guerresco e l’attributo del ligneo equino (‘gran’). Non consono a tale interpretazione sembra invece il carattere ballerino del re (non consta agli storici che Ulisse amasse particolarmente ballare, anzi egli era riflessivo, prudente e schivo). Per una seconda scuola il ‘re della danza’, secondo alcuni, potrebbe essere Nataraja, ossia Shiva, che ha effettivamente, tra gli altri, anche tale epiteto; tuttavia non si ha alcuna notizia di Shiva a cavallo, no si suppone che abbia mai avuto a che fare con cavalli. L’iconografia sul punto è estremamente chiara. La terza infine è la notissima scuola francese, la quale identifica nel ‘re’ Alessandro il Grande (re di Macedonia), e nel gran cavallo il leggendario Bucefalo (il cui nome - ‘testa di bue’ - richiama infatti la maestosità del quadrupede). Tale interpretazione ha anche il pregio di essere coerente con l’estrazione, diciamo, culturale di Orietta. A Cavriago, luogo di nascita della cantante, come del resto in tutta l’Emilia, il gioco delle carte è molto diffuso. Nelle tradizioni anglosassone e francese il re di fiori corrisponderebbe proprio ad Alessandro Magno. Secondo gli storici (cfr. in particolare Ateneo di Naucrati, I Deipnosofisti, o Sofisti a banchetto, 10.45 434F e 435a), Alessandro Magno amava molto i banchetti e le danze sfrenate, alle volte orgiastiche, che li accompagnavano. Era lui a decidere quando si sarebbe iniziato il ballo.
Sarebbe dunque disvelato l’arcano: Alessandro Magno è senza dubbio “il re con un gran cavallo che decide quando si balla”.
Ma perché collocare, in un contesto così attuale, una figura storica?
E poi, come può decidere oggi, un Alessandro, dei destini del mondo?
3. L’interpretazione cosiddetta ‘scacchistica’ (nata dal connubio logico “re-cavallo”) trascura completamente l’elemento “danza”. L’unico momento in cui i pezzi possono in ipotesi “ballare” è in viaggio (es.: sul treno), su di una scacchiera mal ancorata, ma in tal caso è la forza d’inerzia che decide quando si balla, non certamente il re, pezzo, peraltro, piuttosto debole e insicuro.
4. L’interpretazione politica. Forse quella più in linea col tenore complessivo del testo. Ebbene, re con cavallo non può, per evidenti motivi, essere un presidente russo o americano, visto che di essi il pezzo si preoccuperà, come vedremo, tra poco. Un altro “re del mondo”, forse di guénoniana memoria, dunque? E chi può essere? Un re più forte e più potente di tutte le potenze, un monarca invisibile che muove i destini del mondo e decide chi farà che cosa. Non può essere, naturalmente, Domineddio, non solo per il fatto che non va a cavallo (immagine peraltro ad un tempo ardimentosa e buffa), quanto soprattutto perché, anche per un rimando allo stesso re, al quale gliene vengono cantate quattro, tra non molto, la frase avrebbe tutto il sapore di una bestemmia.
5. Secondo noi, così, a naso, potrebbe trattarsi di Gheddafi.


A voi russi o americani
io non delego il suo domani
su mio figlio non metterete le vostre mani


Siamo al passo più celebre del pezzo. Il fulcro, il clou.
Il famosissimo j’accuse alle due - venivano chiamate così - superpotenze mondiali (un termine fumettistico molto in voga a quel tempo). C’è, prima di entrare in medias res, da rilevare un altro grave errore sintattico, quell’aggettivo possessivo che solo troppo tardi, purtroppo, scopriamo a chi è riferito.
Orbene, “russi o americani” per l’Autore pari sono. Fanno schifo entrambi, diciamo. L’Autore è confidenziale, usa la seconda persona. La sineddoche (“domani” per “futuro”) è potente. Ma tutto il senso è retto, evidentemente, dal “delego”. Non possiamo permetterci di lasciare i nostri figli (come vedremo tra poco) nelle mani di russi o americani. Quelli sono brutta gente, hanno i missili. Delegare, delegare “il domani”. Il genitore prova preoccupazione per il domani del figliolo. All’orizzonte, armate rosse o a stelle e strisce muovono per ottenebrare il nostro futuro. Ma è il delegare, il problema. Normalmente il genitore delega il futuro dei figli a russi o americani? E’ dunque una scelta rivoluzionaria del Nostro Autore quella di sottrarsi alla macchina di delegazione per formulare un gigantesco, tonitruante NO a questa barbarie? La macchina russoamericana che schiaccia, conculca i nostri figli, le loro aspirazioni, le loro ambizioni…ma, un momento, non erano loro, i ragazzi, a cambiare il mondo? Sgomento.

Voglio ancora una vita e un aquilone,
voglio ancora due sassi da buttare,


Ci siamo. L’abbiamo aspettata, e adesso è arrivata. Siamo alla pars construens. Dopo il grido di dolore, parte, con forte e significativa soluzione di continuità, la voce, impetuosa, del desiderio. Io non ci sto a questo gioco al massacro, io “voglio”. Voglio che cosa? Una vita e un aquilone. L’aquilone ci sta tutto: è il cielo, la libertà, il volo, la lontananza dalle cose terrene, il fluttuare spinto solo dai refoli, dall’arbitrio sbarazzino e imprevedibile del vento. Accanto all’aquilone, la vita. Un po’ troppo, forse. Poteva andare bene, che so, una barca, una tenda, una cialda, una pinta. La “vita” spezza l’incantesimo simbolico.
Due sassi da buttare. Il numerale è enigmatico e il verbo è misterioso. Due sassi sa molto di metafora, come a dire due passi, due minuti, due chiacchiere, due colpi, due tiri. Tre sassi non andava bene. Sei sassi (per salvare il metro) sarebbe parso magniloquente. E’ un due stanco, in definitiva, poco prensile. Forse l’ideale sarebbe stato un “dei”, sospendente ma significativo. Poi, i sassi non si buttano. Si scagliano, si gettano, si lanciano, si tirano. La spazzatura si butta. I sassi da buttare sembrano pesi morti di cui liberarsi, ma siamo certi che non è questo che il Nostro intendeva. I versi, pur nella loro difficoltà, farebbero pensare infatti al bimbo, con la sua brava cordicella in mano, ignaro dei russi, che gioca felice sulla riva e che fa saltellare i sassetti a pelo d’acqua, saltellando a sua volta. Tuttavia, di nuovo il dubbio assale, aprendo vasti squarci all’interpretazione nascosta.
A risolvere, secondo alcuni, c’è l’avverbio. Quell’ancora, che sembrerebbe non lasciare spazio a incertezze. Il desiderio è tornare indietro, riprovare l’emozione di bambino, quando la folata improvvisa sposta, eleva, abbatte, e l’aquilone cabra, s’impenna, scende, s’innalza, atterra, si riprende, muore, poi rivive, poi scompare, poi torna, poi non c’è, poi c’è, eccolo, è là, lassù, in alto, in alto! L’occhio si fa tumido e grave di lacrime. E’ nostalgia.

dire sì, dire no, dire amore
e insegnarti che tu puoi volare.


Trovare una connessione logica tra i due versi è impresa complicata. Dopo lunga ponderazione, concludiamo trattarsi del cuore di mamma. Che a volte dice sì, a volte no (i famosi “no che aiutano a crescere”), a volte, giustamente, amore. A volte ti sgrido - quando te lo meriti, figlio mio - a volte ti coccolo, a volte ti insegno a vivere, a librarti nel cielo.
O forse, malignando, ti insegno a volare fuori dalla finestra quando ne ho le palle piene.


Devi fare la guerra dei bottoni,
devi avere la forza di cantare,

Aaah. La guerra dei bottoni. La guerra innocua, bella, pulita. Le cacchette di fango, le figurine, le palline di carta masticata sparate con la bic, la fionda, la pistola ad acqua, le biglie, le macchinine, le palle di neve. Le emozionanti immagini della nostra argentina gioventù. Bisogna tornare indietro e… trovare la forza di cantare. Sì, perché il grigio, se non il nero, ha ammorbato, affumicato, occluso i nostri alveoli. I nostri polmoni sono mortificati, non hanno più capacità nemmeno per respirare, e la gola non può più trovare la forza per cantare. Eppure, bisogna farlo. E sarà proprio la guerra dei bottoni a farci tornare bambini, e a restituirci le energie per sbraitare a tutta strozza i nostri alti lai.
Il problema lo dà il verbo. Ma come? Ci mettiamo a dare ordini, così, all'improvviso? La risposta è nel contesto e la si trova confrontando le righe che precedono con quelle che seguono, e che descrivono, con sublime perfezione, l'incostanza degli stati d'animo di una madre angustiata. Il figliolo che vola, ma che deve combattere!, il figliolo che cresce, ma che deve cantare!, il figliolo che dorme, ma che deve lottare.


figlio mio, neanche Dio può capire
quanto è bello guardarti dormire.


In effetti una sottile inclinazione alla blasfemia l’avevamo percepita. Ma qui si esagera. Pensare che nemmeno l’Onnipotente possa capire, beh, sembra un po’ grossa. In ogni caso, qui è mammà, si capisce, che mentre osserva il fanciullo che dorme, prova ad ammannirgli nel sonno gravi e preoccupati sermoni. Un duo di versi dal sapore posticcio, malfermi, incomodi.


Oggi è tempo di stare attenti
e non parlo dei delinquenti,


Due versi per riempire, perfettamente ultronei. Che sia tempo di stare attenti è fuor di dubbio, vista la lacerante situazione del Sudafrica, a tacer di Russi e Americani. E non dimentichiamo il giornale, con la sua tortura. Inutile ripetersi, inutile soprattutto specificare che non sono i delinquenti quelli da cui bisogna guardarsi. C’è ben altro, per l’appunto.


questa volta non c'è Pilato,
è andato via.


Pilato è andato via. Stavolta non possiamo “lavarcene le mani”. Dobbiamo decidere, decidere del nostro futuro, e in fretta. Non si capisce tuttavia, a voler andare in profondità, perché si senta il bisogno di dire che Pilato se n’è andato via. Pilato, verosimilmente, è morto un paio di migliaia di anni fa, o giù di lì. Quindi trattasi di metafora. E sin qui. Ma perché “andato via”? Dov’è andato, Pilato? Potevano dirci, guardate qui non è più tempo di pilati o roba simile, è ora di rimboccarsi le maniche, non possiamo più stare a guardare, accettare passivamente lo sfascio, il degrado.
Un motivo c’è sempre. Leggete bene il testo. Questa volta non c’è Pilato. Pilato è andato via, Pilato, questa volta, ci ha lasciati soli. Pilato, il capro espiatorio, Pilato, colui che sussume su di sé la responsabilità del grande gesto, Pilato marchiato dalla storia come il più vile tra i vili, il più ignavo tra gli ignavi, trova qui una rivincita. In realtà è lui che, con il suo non liquet, si fa carico delle responsabilità, è lui il muro contro il quale scagliamo i nostri dardi e i nostri strali, noi comodamente accucciati sul divano a giudicare e condannare, o assolvere. E lui a far da catalizzatore, da parafulmine. Abbiamo bisogno di un Pilato per sentirci migliori, noi lo vogliamo, un Pilato da additare. Ma stavolta, eh stavolta cari miei, non ce n’è. Pilato è andato via. Dovete cavarvela da soli. E’ al bar, Pilato, è al cinema. Adesso tocca a noi, a voi. Scendiamo dal divano e mettiamoci al lavoro.

Siamo tutti un po' responsabili
se la vita sarà impossibile,
non c'è un alibi che tenga alla follia.


Infatti, siamo tutti responsabili per quello che accadrà se non ci diamo una mossa. Il mondo sta impazzendo e noi abbiamo il dovere di fare qualcosa. Poi, inatteso, uno iato logico, o, più precisamente, forse, una cattiva scrittura. Cosa c’entra l’alibi che tenga alla follia. Roba da spaccarcisi la testa. Sì, perché l’alibi si riferisce a colui che è folle, per il quale non c’è alibi, essendo folle. Ma qui l’autore vuole dire, se non erro, che noi non possiamo invocare alibi quando ci troviamo di fronte alla follia. Ovvero che è nostro preciso dovere intervenire per rintuzzare i folli assalti di re, cavalli, russi, americani, giornali, sudafricani e via discorrendo. Avrebbe dovuto scrivere non c’è alibi di fronte alla follia. O forse mi sto sbagliando io, chi sa.

E a quel re con un gran cavallo
dico io quando si balla
e la storia che si ripete non sarà quella.


Allacciare le cinture perché qui si va forte. Siamo sullo schuss finale. Adesso non si scherza: al re parlo io, gliele canto di santa ragione. Che scendesse da cavallo e la piantasse di dare ordini. Puoi anche avere un gran cavallo, caro re, ma da domani cambia la musica, e a menare le danze ci penso io. Io cambio disco, chiamo la pista, remo la barca, guido la moto, cambio la Storia.

all in it

annientato il bozambo!

venerdì 17 dicembre 2010

Il pringipe degl'imprenditori

Io ho simpatia per l’intrapresa.
Provo un moto di istintiva ammirazione per chi crede in un progetto imprenditoriale: una manifattura, magari calzaturiera, un piccolo esercizio commerciale. Considero chi rischia su un’idea, ci mette il sudore, il sangue, il fegato, va in banca e garantisce il mutuo con la sua casa o con quella di suo padre, ci mette le notti insonni, i patemi, le lacrime, i pentimenti, le liti con la moglie, i fornitori che fanno impazzire, gli avvocati, i clienti, la contabilità, il saldo di cassa, le rate a fine mese.
Ho simpatia per costui.
E ancora più simpatia, quasi tenerezza, provo per colui la cui idea è perdente, sbagliata alla radice, ictu oculi irrealizzabile.
Sì, perché alla fine, l’imprenditore di successo risulta antipatico. A me, almeno.
O meglio, mi risulta antipatico un certo tipo di imprenditore di successo italiano. Quello che appena gli gira bene comincia a comprarsi la Audi, il Suv, si circonda di orpelli, mignotte, frequenta i locali, stringe relazioni ambigue, veste tendenza, diventa sicuro di sé, viaggia, pretende, alza la vocina, disprezza, giudica, prende la multa, ostenta, mescola condiscendenza e arroganza.
Il mio imprenditore di successo è un uomo ignorante, stanco, amante della tavola coniugale, dimesso, umile, attento, gentile, casa e lavoro.
Per uno di quelli che riescono ce n’è sempre almeno uno che non riesce.
E di quelli che non riescono, anche qui, troviamo due categorie.
La prima antipatica, la seconda simpatica.
Il fallito antipatico è quello che non gliene frega un cazzo di fallire. Quello simpatico è quello che soffre.
Ma torno al punto. Il mio imprenditore preferito è quello che coltiva un’idea assurda. Ma non assurda alla Tucker, dico assurda assurda.
Per esempio, adesso parlerò di un’impresa le cui attività mi sono tornate alla mente proprio ieri, o l’altro ieri, durante una conversazione.
Io non so nulla di quest’impresa, di chi l’ha creata, di chi l’ha esercitata. Non conosco le sue sorti, i suoi andamenti.
Conosco alcuni fatti.
In primo luogo il nome: Pryngeps. Con la y. Con la g.
E già qui, sappiamo molte cose.
In secondo luogo so che detta ditta ha fatto (e credo pagato) pubblicità ai suoi prodotti su alcune reti private lombarde, per anni. Tanti anni.
In terzo luogo, non ho mai conosciuto nessuno che abbia indossato uno dei prodotti di questa ditta. Si tratta, è ora di dirlo, di una marca di orologi.
(Ho conosciuto, per la verità, uno che ha comprato uno di questi prodotti e l’ha regalato alla fidanzata. E quando ella aprì la confezione, ammirai smisuratamente la mia fidanzata dell’epoca che, nell’imbarazzo in cui ero precipitato alla vista dell’oggetto – eravamo lì tutti e quattro – seppe trovare le parole giuste)
In quarto luogo, il prodotto-simbolo dell’intrapresa.

questo.





Ecco, per me, uno che gli viene in mente di fare una roba così, a me mi è simpatico.

giovedì 25 novembre 2010

les precieux ridicules

Quel birbante di Dan Brown ha scritto un nuovo libro, ma stavolta l'ha firmato con uno pseudonimo: Umberto E.

venerdì 19 novembre 2010

Michaël Llodra

Sabato scorso Michaël Llodra ha perso in semifinale a Bercy contro Soderling (che è uno che non distingue una racchetta da tennis da un badile). Ha avuto tre match point. Sul secondo il suo passante di diritto è finito sul nastro. Soderling era a quattro metri dalla palla.
Llodra ha giocato il tennis più bello che si possa vedere oggi al mondo.
E ha perso.
Forse.

venerdì 5 novembre 2010

Geremia, 17, 5

L'uomo ha perso fiducia nell'uomo.
Ma come può l'uomo amare Dio se non ama se stesso?
Se Dio è dentro di noi, come è, ed è in tutte le cose, come è, perché non le amiamo, e non ci amiamo, e non lo amiamo?
Perché è così lontano?
Perché tanto dolore?
Non è colpa dell'uomo. L'uomo è fatto a immagine e somiglianza di Dio.
Perché non vediamo Dio? Perché non sentiamo la Parola?
Io voglio, devo avere fiducia nell'uomo, nell'uomo immagine di Dio, nell'uomo che è Parola di Dio.
Ama, e sarai amato.
Amare l'uomo è amare Dio.
Amaci, non lasciarci soli.

giovedì 4 novembre 2010

cave fellationem

qualche anno fa negli stati uniti d'america hanno mandato davanti al gran giurì il presidente perché ha detto una bugia. non una bugia qualunque, no. una bugia che ne minava la credibilità istituzionale, una bugia che ne annientava il peso politico e tradiva vergognosamente il cosiddetto mandato popolare, come a dire, se uno mente su questo, mente su tutto. come può essere un buon presidente dell'america uno che dice bugie come questa?
di cosa si trattava? il presidente si era fatto fare un pompino da una donna che non era sua moglie. e quando la donna lo sputtanò, ai giornalisti lui disse beh, sì, cioè no, non esattamente, non era sesso, era solo un pompino. e la sua carriera finì.
il nostro premier ama anche lui i pompini. a quanto pare molti uomini (e donne) sembrano credere che un presidente non deve amare i pompini, se non da donne che sono legittimate (in forza di un contratto o di un sigillo) a farglieli. e comunque non è bene che lo dica, se li ama. non sta bene.
un presidente che ama i pompini e che dice di amarli non può essere un buon presidente, in effetti.
che presidente può essere uno che se vede una bella ragazza vorrebbe avere del sesso, anche orale, con essa? può forse condurre degnamente un paese, avendo voglia di fare l'amore?
no, non lo credo nemmeno io.
il migliore dei presidenti possibili (maschi, ma vale anche per le femmine, mutatis mutandis) è quello che non ama il sesso. deve amare le riunioni, i faldoni, le parate, le telefonate, le firme sui pezzi di carta, le riviste (militari), deve amare parlare, deve amare la responsabilità, gli impegni, deve amare il Paese, deve amare i bambini, gli operai, i magistrati, i giornali, i lavoratori tutti. deve amare fare la pipì, con il suo pistolino, non qualche altra cosa.

nel nostro paese, come in america, quando la prima troia si sveglia la mattina e dice che ha succhiato l'uccello del premier, il premier deve andare a casa.

io credo che sia bellissimo vivere in un paese così. farsi succhiare l'uccello per diletto, o fare altre cose collaterali, è una cosa che può desiderare un giornalista, un avvocato, un dentista, ma non un politico.

quando andiamo a votare, ci andiamo, tutti, con la piena convinzione che colui (o colei) che votiamo sia una persona integerrima, soprattutto dal punto di vista del costume sessuale. è quello, il motivo per cui scegliamo i nostri politici e i nostri amministratori.

le statistiche pubblicate da tutti i periodici cosiddetti scientifici ci dicono sempre che la durata media, nel mondo, di un rapporto sessuale è di 8 minuti.
io non ce l'ho fatta mai in meno di dieci, nemmeno quando avevo 18 anni e mi eccitavo coi fumetti e stavo cinque giorni senza eiaculare.
mi sento molto in colpa per questo.

mercoledì 29 settembre 2010

cuoglio

sono un coglione.

sabato 25 settembre 2010

25 settembre 1967

I

benvenuto
sei appena nato e già piangi. ti capisco.
beh, sappi che questa sensazione ti accompagnerà per tutta la vita.
vuoi sapere cos'è la vita? te lo dico.
i tuoi genitori non ti comprenderanno mai.
all'asilo un bambino ti ruberà una cosa cui tieni molto. il primo furto della tua vita. non te lo dimenticherai mai.
a scuola imparerai lo scherno, la cattiveria senza senso. le prime ingiustizie.
imparerai le differenze, e questo ti renderà infelice.
presto proverai il primo batticuore. il primo no, grazie.
prima o poi arriverà un sì, e sarà molto, molto peggio.
quando andrai a lavorare imparerai che il tuo lavoro non ha alcun senso. inoltre, sempre, troverai chi vorrà farsi bello a scapito tuo.
il tuo migliore amico smetterà di parlarti.
te ne farai degli altri. uno di questi si scoperà la tua fidanzata.
proverai il dolore fisico, a partire dai primi giorni, e per tutta la tua vita. non ti abbandonerà mai.
se sei sfortunato, proverai dolore di tipo diverso. te lo infliggeranno, e tu lo infliggerai a loro.
ti illuderanno, e calpesteranno le tue speranze.
e quando comincerai a capire qualcosa, sarà sempre troppo tardi.
qualcuno piangerà per te, e tu, colpevolmente, non capirai perché.
cercheranno di renderti schiavo. ogni sforzo che farai per cercare di essere libero non avrà effetto.
ogni tua relazione sarà un rapporto di forza. e tu ne sarai responsabile, al pari degli altri.
la cultura si allontanerà da te tanto quanto più tu cercherai di avvicinarti a essa.
e dietro di te lascerai comunque rimpianto e rammarico, fedeli compagni.
ti piace tutto questo?
non mi credi, vero? e anche se mi credessi, non rinunceresti certo alla possibilità di provarci.
allora, via.


II

c'è il fiele dentro il bacio
il veleno nei ravioli

uomini giudicano uomini
maschere tragiche
in templi dell'indifferenza

non esiste la cura
esiste il dolore

il grido che si perde nel vuoto
la mano incompresa

la mattina la nausea
la sera lo stomaco pieno
eppure non c'entra

l'amore è orrore
la violenza è la strada

il buio, alla fine, cancella ogni luce

buon compleanno

giovedì 16 settembre 2010

il bicchiere

"il bicchiere non è né mezzo pieno né mezzo vuoto. è rotto."

così scrisse MCD

il problema è che comunque lo si guardi il bicchiere sa esclusivamente di merda.

domenica 22 agosto 2010

l'appassionante questione ontologica colpisce ancora

le donne, almeno qui da noi, dicono tutte, dico tutte, la stessa cosa: gli uomini non si assumono le loro responsabilità
dicono questa cosa perché sentono che manca (a esse donne) qualcosa.
in realtà le donne sono esseri perfetti e non lo sanno.
(nota: le postfemministe sbagliano quando dicono che il movimento avrebbe dovuto insegnare alle donne ad essere amiche tra loro, quando parlano di grande occasione mancata e così via. per le donne essere amiche è ontologicamente impossibile, come vedremo in appresso. per gli uomini è molto difficile, perché il senso della vita, che si ostinano a cercare per tutta la vita, lo riescono a lambire solo quando sono da soli, nel buio della loro stanzetta, o almeno così pensano, e si sbagliano)

da piccoli ci hanno cresciuti con il senso della responsabilità
ci hanno insegnato ad essere uomini a scuola, in famiglia, e ovunque siamo stati.
ci insegnano ad ammirare i miti dell'antropologia maschile: ettore, ulisse, i grandi condottieri, i grandi statisti, i grandi guerrieri.
i libri di scuola li hanno scritti i maschi, ma la società, che è governata (se si preferisce tessuta, tenuta insieme, costituita, regolamentata, ordita e ordinata) dal femminile e non dal maschile, ha preteso (badate che è vero, ci ho pensato, non l'ho scritto a casaccio) che di ulisse non si comprendesse il significato mitico, cioè la profondità, la ricerca, la curiosità, il senso del limite, ma il fatto che tornasse a casa dalla moglie, la quale, naturalmente, nel frattempo, lo aspettava in trepida e fedele attesa.
la società gestita dal femminile ha insegnato agli uomini cose sbagliate: ovvero che essere uomini significhi cercare, ma per portare a casa, cercare il verme e portarlo al nido, dove bocche affamate attendono; costruire, per conservare; approfondire, per tramandare.
per altro verso, ha ragione la signora bernardini de pace, ha ragione chicca olivetti: prendiamoci tutto, prendiamoci tutto il cucuzzaro.
uomo è soprattutto colui che si assume le responsabilità
dei suoi gesti, delle sue azioni, delle sue parole
alle donne tutto questo non è mai stato richiesto, né dalla storia né dalla società
alle bambine è stato chiesto di essere buone mogli e brave madri
quando ci sposiamo, le donne ci fanno fare dei figli e poi ci dicono che dobbiamo assumerci le responsabilità
ce lo dicono per tenerci legati, così non ce ne andremo più
se facciamo per andarcene, molte cercano di farci fare dei figli
se abbiamo fatto dei figli, cercano di farcene fare altri. se anche questo tentativo fallisce, attaccano con la questione delle responsabilità
alle donne non interessano gli uomini
alle donne non interessa la vita. non interessa perché la vita è parte integrante della loro splendida ontologia. per noi è oscura, inaccessibile, per loro naturale come la pipì. non c'è bisogno di indagare. nessun uomo passa la vita a indagare i significati ultimi della minzione.
l'uomo eiacula. pochi secondi e si rimette i calzoni. la donna coltiva dentro di sè un essere umano, e lo mette letteralmente al mondo.
le donne sono esseri meravigliosi e perfetti, sono esseri superiori, e lo dico con la massima serietà e convinzione
alcune donne si suicidano. sono uomini in corpi di donna.
alla maggior parte delle donne non interessa molto indagare e capire, ed è giusto che sia così. le donne non sono fatte per cercare, ma per conservare.
gli uomini fanno la guerra, combattono, esplorano, costruiscono, distruggono, fanno. le donne conservano, mantengono, perpetuano, tramandano.
se le società fossero costituite da uomini, non esisterebbero se non per il tempo destinato a estinguersi.
a molte donne interessa sposarsi per poter pronunciare la parola marito davanti ad altre donne
per costoro marito è colui al quale è stata concessa una eiaculazione dentro la loro vagina, e successivamente e conseguentemente questi potrà, dovrà andare a parlare con l'amministratore del condominio, quando ci sarà un problema, dovrà fare la voce grossa e la faccia dura quando gli sarà richiesto, dovrà fare il bravo quando gli sarà richiesto. perché se non lo fa, gli sarà detto che non vuole assumersi le sue responsabilità, e lui si sentirà uno sfigato, un fallito, un perdente, un esempio pessimo per i figli, sentirà di aver perso la stima della donna che ama, sentirà di non aver incarnato l'idea di uomo che aveva di lui il padre, sentirà il mondo crollargli addosso, sentirà sfuggirgli il senso delle cose, temerà di perdere tutto quello che ha con fatica sino ad allora costruito, e obbedirà, contento di essersi assunto, ancora una volta, quello che il mondo (la sua donna) gli chiede di assumersi.
a molte donne interessa fare dei figli ma non si chiedono il perché, come è giusto che sia.
a molte donne che fanno figli non interessa capire chi sono i figli che hanno messo al mondo in quanto quello che dovevano fare era metterli al mondo e niente altro
il che è perfetto, e io lo capisco e lo ammiro e lo vedo e non ci trovo assolutamente nulla di male, di sbagliato o di immorale.

per la maggior parte degli esseri umani, vorrei dire tutti ma non può essere così per un fatto statistico, le mamme sono delle perfette estranee
la mamma darebbe la vita per la vita di suo figlio
la mamma sta male quando un figlio ha la febbre, si preoccupa, soffre, farebbe, e fa, qualsiasi cosa per farlo stare bene
ma per il figlio la mamma resta una completa estranea
nessuno ha realmente confidenza con la mamma, quella confidenza che, per esempio, riesce ad avere con un amico, o con un padre, se è fortunato.
la mamma ti dona la vita e te la dona ogni giorno della sua vita, ma sarà sempre una estranea.
la mamma è una donna che non conosci, che non ti conosce, che non conoscerai, che non ti conoscerà, e che ti ha messo al mondo.

cosa interessa dunque alle donne?
alla maggior parte delle donne interessano le altre donne, di nuovo per un fatto squisitamente ontologico.
anche se hanno trovato il loro lupo relativamente alfa, le donne vivono nell'ansia di perderlo, ovvero nella tensione di poterne trovare uno ancora più alfa
questa paura e questa tensione sono costantemente minacciate da tutte le altre donne, che vivono nello stesso identico stato perenne.
quando perdono per qualsiasi motivo il loro lupo alfa, ne trovano un altro, oppure fanno in modo che l'ex loro uomo continui ad assumersi le sue responsabilità.
(un domani vorrei che qualcuno mi spiegasse il principio di diritto per il quale il coniuge - maschio o femmina che sia - ha diritto a pretendere dopo la separazione o il divorzio un trattamento economico pari a quello precedente la separazione o il divorzio. il principio non esiste. nessuno lo dice, ma non esiste, e non può infatti esistere un principio giuridico del genere, a ben vedere. nondimeno, così stanno le cose)
le donne sono state costruite per perpetuare la specie e preservarla
se interessasse loro la filosofia, saremmo tutti morti
pertanto, correttamente, preferiscono un uomo con un grande conto in banca ad un uomo di grande cultura.
non ci possono fare niente. non è colpa loro, sono fatte così, ed è sacrosanto che sia così.
dobbiamo ringraziare le donne per questo, non disprezzarle.
non dobbiamo lamentarci del fatto che non sappiano giocare coi nostri figli, primo perché con loro giochiamo già noi, e ai piccoli basta, secondo perché mentre noi giochiamo loro sistemano i conti di casa e mandano avanti la baracca.
non dobbiamo lamentarci se dopo il matrimonio o dopo la maternità scopriamo che sono meno romantiche e più ciniche di quanto pensassimo, oppure se ci coccolano di meno.
il problema non sono loro, siamo noi.

siamo noi che non sborriamo abbastanza come e dove dovremmo.
la natura non è scritta nei libri.
la natura dice che se una donna ha le mestruazioni può avere rapporti sessuali, quindi è giusto che li abbia, non sbagliato.
così come sarebbe giusto che qualsiasi gravidanza, in un mondo perfetto, fosse portata avanti, ma questo è un altro discorso.
fisiologicamente parlando, la natura dice che una donna è fertile più o meno una settimana ogni 28 giorni. se il suo ovulo incontra uno spermatozoo e viene fecondato, la donna è incinta e così per natura resterà per i successivi nove mesi.
l'uomo è fertile tutti i giorni, tutto il giorno.
la natura dice che l'uomo potrebbe fecondare diverse donne ogni giorno, quindi sarebbe giusto che lo facesse, non sbagliato.
ma noi non lo facciamo, preferiamo assumerci le nostre responsabilità
a questo punto, ecco i miei appunti per una rinfondazione dell'etologia umana:
non voglio assumermi alcuna responsabilità
non voglio essere un uomo
voglio sborrare

appunti per il prossimo post:
l'individuo non esiste
esistono gli esseri umani, non l'individuo.
ecco perché non ha senso intercettare le telefonate o le conversazioni qualsivoglia. ciò che dico non ha alcun senso, perché il senso di quello che dico, anche se ce lo dovesse avere per me che lo dico, e potrebbe non averlo per una infinità di motivi, non ce l'ha perché lo dico a quella persona, in quel contesto, in quel momento. e quindi, se ce l'ha, ce l'ha solo limitatamente a quel contesto. cioè appunto, in ultima analisi, non ha alcun senso.

sabato 21 agosto 2010

E

E allora si mise a scrivere. Come Suffeno, come Volusio. Cosa diceva Callimaco? Chi se lo ricorda. E scrisse, scrisse. Scrisse così tanto che stancò tutti. Tutti tranne se stesso. è come il film forrest gump. Uno comincia a fare una cosa senza sapere se e quando smetterà di farla. E mentre la fa, la cosa comincia ad assumere via via significati diversi. Prima un tentativo, poi un gioco, poi una ragione di vita, poi niente, poi un'abitudine, poi una sofferenza, poi una schiavitù, poi la vita stessa, poi niente, poi basta. Poi c'è il disgusto per nanni moretti. Fa ridere un sacco, il suo cinema ombelicale, fatto per noialtri, senza tecnica, senza regia, senza fotografia, in cui c'è lui sempre nudo o in mutande chissà perchè e le domande e le citazioni che capiamo solo noi. Faceva ridere. Come me? E i film di tony richardson? E roger corman? E william castle? E michael powell? E mario bava? E georges clouzot? Io l'ho letto, una certa tendenza del cinema francese, sarà vent'anni fa. Ho visto solo il corvo. Però il salario della paura lo voglio vedere. Ma non quello di frankenheimer (o è di friedkin?) Anche se F è bravo. A parte ronin. Peró gli inseguimenti son girati bene. E friedkin? Bravo. Appunto, è di friedkin, il salario, imbecille. E luigi filippo d'amico? Guglielmo il dentone, sì. Non se ne salva nessuno, come sempre. Vince la determinazione, sì, ma solo contro la miseria. Io sono uno che ha visto stalker. E gli é pure piaciuto. Ho rivisto ricomincio da capo per l'ennesima volta. Un capolavoro assoluto. Lo scoprirà qualcuno tra vent'anni, quando nessuno finalmente avrà più il coraggio di parlare del cinema italiano, o turco-italiano, o iraniano, o franco-iraniano, o franco-irakeno. Film che narrano storie di bambini poveri, preferibilmente senza scarpe, che fanno amicizia con cavalli bolsi, mentre soldati dell'imperialismo saltano sulle mine. Film sull'amicizia tra le sciarpe e le bandane, tra i rom e gli intellettuali, tra la vedova e il miglior amico del morto. Il cinema italiano? Guarda guarda hanno scoperto antonio margheriti e fernando di leo. E lucio fulci allora? alfonso brescia? Sempre molto meglio di fellini. Fellini è orrendo. Ci ho provato, ma proprio non fa per me, il riminese. Miseria e nobiltà, di mattoli. Se lo dessero tutti i giorni, lo rivedrei tutti i giorni. Il genio di enzo turco, per larghi tratti superiore perfino a totò. Dolores palumbo. Il principe di casador. Ca-sa-dor.
Vorrei scrivere una volta nella vita qualcosa di universale. E invece, mai. Invece mi faccio le seghe. Come le mamme che scrivono di ricette e brocantage. Lo stencil. Appassionante. Vorrei appassionarmi al cucito. Alla macchina da cucire. La quale mi appare come un oggetto misteriosissimo e quindi affascinante. Un mondo lontano, complesso. Che bella, la macchina da cucire. Che oggetto splendido. Che palle. E' solo egoismo, egotismo, ioismo. Quei tre, cinque sette secondi, da solo o no. La ricerca del consenso, ancora e sempre. Ho un post sulla sicilia in gestazione da più di un anno. Ogni tanto lo leggo, apporto qualche correzione senza importanza, poi lo lascio lì. Quando lo pubblicherò, avendo esso la data della sua creazione, sarà infilato nelle pieghe del buonblog in silenzio e al buio. Ho un post in gestazione da mesi su fabio caressa. Pensa come siamo messi. Mi guardo il tennis su sky. Adesso hanno commentatori bravi, anche troppo. Luca bottazzi, per esempio. Capisce il gioco. Parla anche un discreto italiano. Il problema è che è antipatico. Arrogante, pedante, ha l'ansia di dimostrare. Non conosce lo humour. Me lo ricordo quando ero ragazzino. A 15 anni si dava arie spaventose. Si sentiva borg. Non ha mai vinto un cazzo, non è mai stato nessuno. Molto meglio galimberti. La reggi è un po' peggiorata, si é rammollata, ma va bene così, avercene. La pero è sempre brava. Zancan non é male. ghisoni e boschetto fanno il loro. Bertolucci è gradevole. Marianella dovrebbero ucciderlo, lui e caressa. Per me hanno la tessera del PSDI. Anche il tennis, come tutto, va verso il brutto. I tennisti non possono più fare a meno, a quanto pare, dell'asciugamano tra un punto e l'altro e si spostano miserevolmente per giocare di dritto. Esibizioni muscolari, prive di eleganza, dolcezza, tocco. Il serve and volley lo giocano in tre al mondo: stepanek, llodra, dent. Escono di buon grado al primo turno. Sono un vigliacco. Non faccio nulla di quello che vorrei fare. Mi faccio rompere i coglioni. Vivo la vita degli altri. Sono un vigliacco fottuto e mi faccio schifo. Sono un uomo senza palle. Un non-uomo. Un quaqquaraqquà. Mi sono messo a fumare. Fumo poco. Dopo 4 o 5 sigarette il mio fisico mi dice basta. Magari se insisto prendo il vizio. La cosa giusta la dice jack london, che morì alcolizzato e che sempre bevve e sempre, ogni volta, gli fece schifo. Grande, jack london. Ho telefonato a un mio amico. Scrive poesie. Almeno lui, ha scelto di non ammazzarsi. Aveva appena finito di mangiare. Ruttava molto. Avrei voluto interporre qualche robusta scoreggia, ma ero in bicicletta.
Qualcosa di universale. Una mia amica si è provata a prosodiare e al primo tentativo ha scritto gli stessi versi di una poetessa famosa, a lei sconosciuta. David Foster Wallace ha visto pubblicata (considera l'aragosta) una sua lezione su kafka, nella quale sostanzialmente riprende ciò che scrisse, poco tempo prima, milan kundera, in un suo saggio, che wallace, ne sono certo, mai lesse (i testamenti traditi).
L'arte è inconsapevole e accidentale e universale. Il contadino del sezuan scrive, ha scritto, scriverà come platone. Uno le cose o le capisce, le vede, le sente oppure no. Sento la lontananza da me stesso, dalla vita, e, fottutamente, dalla macchina da cucire.

lunedì 7 giugno 2010

francesca

francesca schiavone non ha solamente vinto il roland garros, con tutte le statistiche annesse.
ha vinto il roland garros giocando una volée smorzata di rovescio in controtempo sul 5-2 del tie-break del secondo.

mercoledì 2 giugno 2010

fenomenologia di fabio caressa

mi sono spesso chiesto perché in quel di sky non si siano ancora liberati dell'ingombrante presenza del telecronista fabio caressa.
naturalmente ho posto la precedente questione avendo già considerato - mi sembrava un gesto minimo - che il fatto che il mio orecchio e i miei sensi trovino il suddetto personaggio particolarmente sgradevole, non debba significare che tutti provino i miei stessi rimescolii.
dapprima pensavo che fosse dunque perché il caressa riscuote notevoli simpatie presso il pubblico, o presso i colleghi, o perché ha appoggi importanti. poi, re melius perpensa, ho trovato la spiegazione. sky non se ne libera perché non può.

fabio caressa è uno di cui non ti puoi liberare.

fabio caressa è un uomo determinato. uno che sa quello che vuole. è un uomo che, come molti della sua specie, ha molta stima di se stesso. fabio caressa è ambizioso, ovviamente. può guadagnare grandi traguardi. è un piccolo bonolis, qualche libro mal letto in meno, più tracotante, meno subdolo. è un uomo che, senza dubbio, ha una sua opinione su tutto.

fabio caressa è tracagnotto, ha collo largo e molto corto, capello amico dell'unto, faccia larga e quadrata, strozza metallizzata ed erre molto arrotata.
è uno che non si stanca presto. ha molta carica. e poca paura.
un cavaliere del medioevo. uno che darebbe volentieri del tu alla cotta di maglia, alla cappa e alla spada.

fabio caressa è completamente privo di senso dell'umorismo. pensa che lo stile stia in quella che lui crede essere la preparazione tecnica, ovvero l'individuazione dei giocatori sul campo.

fabio caressa è un rompicoglioni.
è il classico personaggio che arriva al villaggio turistico e si lamenta della camera, del servizio, della lontananza dal mare. fomenta i villeggianti, crea un gruppo e pretende rivendicazioni. è un leader. un leader di poveracci. è quello che alza la voce all'assemblea condominiale, è quello che si prende la "questione di principio", è quello che al liceo si metteva in prima fila quando c'era da far casino, è quello che si fa nominare "consigliere" ovunque esista questa possibilità in seno al mondo.
caressa si sente solo. e vuole essere amato.

fabio caressa è un uomo rozzo. rozzo nel parlare, nel muoversi, nel vestire (nel senso che, sul suo corpo, i vestiti diventano rozzi). la voce è sgradevole, il tono sempre sopra le righe. il lessico è misero, la retorica abbonda, anzi deborda, l'antilingua s'impone con fierezza. assai carente l'analisi tecnica, fastidiosa la compiaciuta rapidità di parola. ha provato a fabbricare anche lui un suo segno distintivo - non dire "gol" o "rete" ma il nome dell'autore - con esiti deprimenti quando non (involontariamente) comici.
il dialetto romanesco emerge febbrilmente nelle telecronache reclamando spazi. spazi che gli sono stati concessi in piccole trasmissioni post partite. qui il nostro si presenta in maniche di camicia (troppo aperta) e jeans sparacchiando battutacce e analisi da osteria in compagnia dell'amico e collega stefano de grandis, il quale se nemmeno in presa diretta riesce ad esprimersi in italiano, figuriamoci in registrata e in jeans.

caressa è un telecronista che vuole lasciare la sua impronta (il suo omologo, in rai, è marco mazzocchi, figlio d'arte). è un parricida, come tutti i giovani arrabbiati. vuole la testa dei papà equidistanti e assonnati delle telecronache di un tempo. prende posizione, dice la sua, dà di gomito all'ospite, strizza l'occhio, fa capire di saperla lunga, e questo con la speranza di creare un ponte di simpatia e complicità sia con l'ospite che non può parlare troppo (il calciatore inseguito dalla domanda sul suo futuro o sul perché di tanta panchina), sia con lo spettatore (che deve sapere che c'è di più, rispetto a quello che si legge).
un furbetto, caressa.

da qualche tempo hanno assegnato al nostro (l'avrà preteso lui, che è senz'altro giocatore) il commento delle partite dei tornei internazionali di poker (nella versione texas hold'em). lo spettacolo è spossante. certo il gioco non aiuta (il poker è il più rozzo dei giochi di carte, l'hold'em la variante deteriore, e almeno in questo l'accoppiamento è centrato).

in ogni caso, qualsiasi cosa egli dica o faccia, è convinto che siamo tutti amici suoi.

adesso lo aspettano i mondiali di calcio.

uno dice guarda che prima di caressa le telecronache le faceva massimo marianella.
e allora ti rendi conto che, una volta di più, era meglio stare zitti.

martedì 1 giugno 2010

c'era una volta

"il cinema, declinazione deteriore della letteratura, svolge invero come questa la funzione socialmente utile di essere fruibile universalmente, a prescindere da qualsiasi disposizione del suo fruitore".
provo a parafrasare come segue la celebre sentenza di L. Manning Vines sopra riportata: prima o poi, chiunque riuscirà a identificarsi in un'opera d'arte. e in quell'istante, aggiungo, quell'opera avrà raggiunto il suo scopo (in questo il cinema si differenzia qualitativamente dalla pittura, che infatti mostra, anche da questo punto di vista, di essere espressione barbara dello spirito umano. molti si emozionano davanti a un quadro, molti anche davanti a orribili quadri, ma nessuno si identifica in un quadro. lascio ad altre notti l'intrigante discussione intorno alla "puerilità del processo di identificazione").

invece accade di capire qualcosa di ciò che ti è accaduto, o ti accade, guardando un film.
(naturalmente non guardando un film che conti tra i suoi interpreti bud spencer o terence hill, quei film con le scazzottate e quelle orribili canzoni. del perché milioni di persone trovino esilarante terence hill che prende a pugni un tizio, è un fatto che mai riuscirò a capire. ma è un altro dei miei problemi)

in realtà l'arte non ha alcuna funzione e alcuno scopo, così come i sentimenti. questi, tuttavia, possono trasformarsi in orrore, e rendere orribili. cosa che l'arte non può fare.

a me piacciono i libri che parlano di donne che amano troppo.
mi piacciono i settimanali femminili. li trovo meravigliosi. mi piacciono gli articoli che parlano di donne che insegnano ad altre donne che è ora di smetterla di pensare che essere donne significhi dare in modo incondizionato, perché è ora che le donne imparino ad amarsi.
mi piacciono moltissimo anche le interviste alle attrici, delle fighe spaziali taglia 40 (mi permetto di interporre il non secondario rilievo che codeste sono fighe spaziali nonostante la taglia) in cui tutti ci identifichiamo, che dicono tutte cose tipo vado pazza per il cioccolato non resisto alle lasagne mangio tutto il giorno mangio a tutto gas mangio tutto quello che voglio non mi interessano gli uomini sto benissimo da sola (con fuffi) odio le vacanze amo stare a casa

così scopriamo che la vita di penelope o di cameron è la stessa, proprio la stessa della casalinga di secondigliano.

l'altra sera ho rivisto con piacere ed emozione il film crimini e misfatti, che il suo autore ha ritenuto di rifare, peggio, qualche anno fa con il titolo match point e con attori decisamente più antipatici
almeno hawks ha rifatto un dollaro d'onore ma sempre con john wayne. vabè. a monte.

crimini e misfatti è, notoriamente, un capolavoro. un'opera d'arte universale. sono convinto che chiunque troverà una parte del senso della propria esistenza, una risposta a qualche domanda, un'altra domanda, guardando il film.

oggi mi sono commosso due volte. una, per una volée smorzata di dritto di francesca schiavone, nel terzo game del primo set (roland garros, quarti di finale). un'altra per una volée di rovescio, della medesima schiavone, sul 30-15 del 5-3 del secondo.
il che, temo, la dice, forse, lunga.

"c'era una volta un piccolo pesce che nuotava felice con i suoi genitori. un giorno il pesce andò al supermercato a fare la spesa. a un certo punto incontrò un delfino, fecero amicizia, cenarono e si addormentarono. fine"

se perderò il prezioso incerto manoscritto, magari resterà sul web. chi lo sa.

domenica 16 maggio 2010

deliri notturni su matteo 7

Non giudicate, per non essere giudicati; perché col giudizio con cui giudicate sarete giudicati, e con la misura con la quale misurate sarete misurati. Perché osservi la pagliuzza nell'occhio del tuo fratello, mentre non ti accorgi della trave che hai nel tuo occhio? O come potrai dire al tuo fratello: permetti che tolga la pagliuzza dal tuo occhio, mentre nell'occhio tuo c'è la trave? Ipocrita, togli prima la trave dal tuo occhio e poi ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall'occhio del tuo fratello.

ho la trave, ma vedo nondimeno la pagliuzza. la vedo bene, pur avendo la trave che mi offusca. se ho la trave, tu la vedi e me la togli, io tolgo a te la pagliuzza, da solo non vedo la mia trave ma vedo bene la tua pagliuzza. insegnami a vedere da solo la mia trave, piuttosto. non riesco a togliermela da solo, ho bisogno di te. e tu di me.

Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete; bussate e vi sarà aperto; perché chiunque chiede riceve, e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto.

se chiedo, non mi verrà dato. ciò che viene dato è ciò che non viene chiesto. qualunque cosa che venga data perché chiesta non è donata e non serve né al corpo né allo spirito.
non chiedere, e ti sarà dato.
se cerco, non trovo. se cerco la fede, non la troverò. solo se smetterò di cercarla, forse mi sarà donata.

Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa infatti è la Legge ed i Profeti.

io non voglio niente dagli uomini. se faccio una carezza, non è perché ne voglio una a mia volta.
io voglio una cosa, ma tu un’altra. una cosa provoca a me dolore, a te no, a me gioia, a te no. non posso sapere cosa vuoi, posso solo starti accanto. e ascoltarti.

Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione, e molti sono quelli che entrano per essa; quanto stretta invece è la porta e angusta la via che conduce alla vita, e quanto pochi sono quelli che la trovano!

la via del signore dev’essere larga, non stretta.
la via dev’essere facile, non difficile.
se è più facile perdersi e commettere peccato che seguire dio, se dio è per i pochi, c’è qualcosa che non va. tutti devono poter vedere e seguire dio.
è molto più facile carezzare che rubare.

Così ogni albero buono produce frutti buoni e ogni albero cattivo produce frutti cattivi; un albero buono non può produrre frutti cattivi, né un albero cattivo produrre frutti buoni. Ogni albero che non produce frutti buoni viene tagliato e gettato nel fuoco. Dai loro frutti dunque li potrete riconoscere.

l’albero non è cattivo, è albero. dio ha fatto l’uomo. tu, gesù, sei il figlio dell’uomo.
dal perfetto può promanare l’imperfetto. da padri cattivi nascono, grazie a dio, figli buoni, come da padri buoni figli cattivi. non puoi conoscere il padre dal figlio, perché il figlio non nasce dal padre.
nasce, e basta.

della sborrata

una delle cose più belle dei film porno è la sborrata, che rappresenta, per essere concisi, il motivo, l’unico, per cui noi maschi della razza umana siamo al mondo. ed è anche il motivo, l’unico, per cui i maschi guardano i film porno, per ricordarsi, per quei pochi secondi, il senso della loro esistenza.
(un’altra cosa molto bella dei film porno è che dopo averne visti tanti cominci a pensare che potrebbe non esserci molta differenza tra le cose, tra le persone e tra i sentimenti, proprio come chance giardiniere, che ha diritto di spegnere le persone con il telecomando)
la cosa bella della sborrata è la sua imprevedibilità.
non sai mai il volume, il colore, la consistenza e soprattutto il dove.
c’è troppa, troppa verità.

sabato 15 maggio 2010

la terra è lieve.

sabato 20 marzo 2010

lai dell'insetto che non posso essere

son cose vecchie.

se vai ad ascoltare una chiacchierata in ricordo di roland barthes, troverai la sala piena. e due ore di coda ti aspettano se pensi di andare ad ammirare le opere del grande artista.
bello vedere tutte queste persone che hanno fame di cultura.

la scolarizzazione di massa ha generato, in sintesi, miliardi di orgogliosi consumatori.
quindi, chiudere le scuole.

se si ha voglia di scorrere le classifiche dei 100, mille libri, canzoni, film degli anni 50 60 70 80 90, si scopre che aveva ragione saloth sar
quindi, tornare analfabeti.
piegare la schiena sulla risaia.

bello dirlo davanti alla tastiera, con le unghie pulite e il bicchierino.

la crisi del mondo moderno, quella di evola, era un paradiso.
la crisi del mondo moderno è nelle pagine, per esempio, di vance packard, 1958.

1958

certo, le sceneggiature le scrive, con rispetto parlando, francesco piccolo
i libri li scrive gianrico carofiglio
le canzoni le canta biagio antonacci
il cinema lo fa ferzan ozpetek
e sto citando dei campioni.

ma la misura della crisi è nel livello qualitativo della pubblicità, non della letteratura.

il che lascia una speranza di risalita.

quindi, imparare ad amare la bomba.

in ogni caso, sartre si lavava poco.

a questo proposito, ricordo che mi piace (mi piaceva) leggere quelle pagine dei romanzi russi in cui c'è sempre una bettola sudicia, un gestore ruvido, avventori balordi con il colletto bisunto e il cappotto sdrucito.

un giovane emaciato, febbricitante, una manciata di copechi, e una carrozza al di sopra delle sue possibilità.

martedì 16 marzo 2010

così imparo

- com'è andata oggi a scuola?
- bene
- cosa avete fatto?
- abbiamo studiato le addizioni
- ah bene. cosa fa due più due?
- sei
- e due più uno?
- quattro

così imparo a fare domande odiose.

lunedì 22 febbraio 2010

ci sono perché senti il mio corpo accanto al tuo
e ti basta per il sonno

ma io ho paura anche di accarezzarti
e talvolta, mentre dormi, quasi vergogna, imbarazzo di guardarti

al cospetto di dio nessuno ha il coraggio di parlare.

venerdì 12 febbraio 2010

lui

domenica 7 febbraio 2010

eclissi totale del cuore

tutti quelli che massacrano la famiglia, il giorno prima sono andati in ufficio, hanno portato la bimba a scuola, hanno chiacchierato coi colleghi, hanno fatto la spesa, soppesando, valutando se fosse più conveniente l'una o l'altra marca, se preparare il risotto o lo spezzatino.

tutti quelli che massacrano la famiglia l'hanno fatto perchè il giorno prima, e tanti giorni prima di quello, hanno dovuto salutare il portiere, l'edicolante, il vicino di casa, mentre quel giorno hanno capito che non ce l'avrebbero fatta, e che non era giusto far vivere alle persone che amavano lo stesso strazio.

le vite di tutte queste persone, come accade sempre, a volte sono state salvate dal caso. una mano inattesa di una persona inattesa su una spalla, una canzone qualunque, un bel film in televisione.

se passa l'attimo, magari non ne arriva un altro.

c'è una cosa peggiore del non riuscire a comunicare, ed è pensare di essere costretti a farlo.

ma nessuno riesce mai a dire e fare quello che pensa, ed è obbligato per tutta la sua vita a fingere, finché alcuni si abituano e la cosa non fa loro più alcuna impressione, altri vanno nei matti.

tu, perché mi saluti? cosa ti porta a sorridermi? perché credi che sia giusto farlo? perché ti senti in dovere di sorridermi? scommetto che in casa hai libri che parlano di armonia, felicità interiore, percorso spirituale, lezioni di qualcuno che ha trovato la via e te la vuole rivelare. perché li leggi, questi libri? pensi di trovarci la risposta ai tuoi patimenti? scommetto che vai alla mostra di magritte, come tutti. ti metti in coda per vedere i capolavori dell'arte. e la sera fai la parte del papà, o della mamma.
le cose le sai da solo. ma non le vuoi vedere.

il filosofo si interroga sul senso del dolore. domanda

saluti l'edicolante e parli della partita. lui fa la parte del milanista, tu dell'interista, le solite battute, il fuorigioco, la campagna acquisti. saluti il collega e parli del lavoro, le solite lamentele, le frasi fatte, che lavoro di merda, d'altra parte è così, meglio fare l'idraulico, sempre di corsa, eh?, scusa sto scappando, salutami tutti. e al bar dove prendi il caffé? come ti comporti?

l'edicolante ha la moglie che sta male, e il figlio ha problemi a scuola.
il collega odia il suo lavoro, anche se crede di amarlo, si sente inadeguato verso tutto e tutti, pensa che la sua vita sia stata un inganno. avrebbe voluto studiare filosofia e si trova lì non sa perché.

alla fine ti trovi in un gruppo di preghiera, insieme a quelli che, proprio come te, vedono e parlano con la madonna.

mercoledì 3 febbraio 2010




un sogno

mi trovo in un villaggio turistico. c'è, da qualche parte, il mare, verosimilmente a strapiombo.
ho la consapevolezza di dover commettere un omicidio, un incarico che ho ricevuto non so da chi né perché.
la mia vittima è pierre arditi, che conosco solo per nome.

mentre gironzolo per il villaggio, lo vedo.
egli è seduto nella posizione del loto. sta meditando, in silenzio, su un divano, all'interno di un vasto locale luminoso, elegante. apprezzo le vetrate altissime su infissi in legno chiaro.

in qualche modo porto a termine il mandato. nel sogno stesso ho memoria di aver infilato un ago letale nella spalla di arditi.

a un certo punto mi sento seguito.
è lui, il mio ucciso, che mi segue. con calma, silenziosamente, senza fretta. io cammino e lui mi viene dietro come un'ombra. cammino senza meta e senza sosta per il villaggio, e lui dietro.
sento che ha voglia di parlarmi, forse desidera qualche spiegazione.

gliela negherò, tormentato per tutto il sogno, più che dal gesto, dal dubbio se il suo nome si scriva arditi o arditti.

martedì 2 febbraio 2010

mercoledì 20 gennaio 2010

resurrezione

la resurrezione dalle ceneri.
osservando il sole e i cicli vitali che ne sono derivazione, pensiamo di essere ciclo anche noi.
tutti sperano nella quiete dopo la tempesta, nella risalita dopo la caduta.

spero non sia così.
spero nelle fiamme, prima o poi. spero in ceneri calpestate da sozzi stivali, o mischiate a escrementi d'animali.

sono stato amato, e non ho amato nessuno.
sono stato ascoltato, e nessuno ho ascoltato.
sono stato aiutato, e non ho aiutato nessuno.

per questo anche il mio unico, patetico desiderio, deve restare tale.

Signore, ti prego, vieni a prendermi.