lunedì 12 dicembre 2011

se non ora quando

più avanti, tesoro. più in là.

martedì 6 dicembre 2011

stronzo feat. stronzone

il diritto all'autodeterminazione degli stronzi.

giovedì 17 novembre 2011

tunditur unda

ma sono stato assalito da uno spettro.
stavo rivedendo alcune scene di La sottile linea rossa e ho pensato e se non ci fosse differenza tra il filmino elettorale del candidato che lo vede porgere il fiore alla bambina e camminare con il pensionato e il film di Malick in cui si sceglie di alternare gli occhi del soldato morente con il sole che si frantuma tra le foglie di un albero?
io lo so che è solo uno stupido spettro, e che gli stupidi spettri fanno pensare e dire cose stupide, però mi ha assalito, il malnato, e, come una ferita lenta a rintuzzarsi, ancora sento il suo bruciore.

martedì 8 novembre 2011

viva il nano!

Io non lo voglio vedere federico rampini, non voglio sentire la sua erre, non voglio sentire che vive a new york e che ha girato tutto il mondo e che ha vissuto sempre all’estero. non voglio sentire fabio fazio, non voglio vedere la sua faccia, la sua cravatta non voglio sentire gad lerner, non voglio vedere le sue giacche non voglio sentire rosi bindi non voglio sentire vendola non voglio sentire bersani non voglio sentire la lega non voglio sentire michele santoro non voglio vedere floris non voglio vedere la sua faccia non voglio sentire travaglio non voglio vedere i suoi capelli la sua bocca non voglio sentire il tg3 non voglio sentire mentana non voglio sentire la gabanelli non voglio sentire crozza. non voglio.

Voglio vedere il nano. Voglio vedere il nano che balla in mezzo alle sue ballerine con le tette gonfie e le gambe lunghe e le scarpe col tacco il nano in mezzo alle sue dodici ballerine sceme e bionde che gli dicono che è unico e bello e intelligente e meraviglioso e stupendo e ballano intorno a lui

Non voglio leggere i giornali non voglio sentire cosa hanno da dire i direttori e i vicedirettori dei giornali non voglio sapere cosa dicono gli intellettuali

Voglio vedere il nano. Il nano col suo doppiopetto goffo, immenso, ridicolo. voglio vedere il nano che canta che balla che balla che canta che ride. Il nano sempre più grasso e sempre più nano e sorridente che si trasforma in una specie di palla tutta blu rotonda e sorridente coi bottoni

Non voglio sentire l’opinione di confindustria non voglio sapere cosa ne pensano i mercati non voglio sapere cosa ne pensano gli studenti non voglio sentire il parere di di pietro non voglio sentire il parere di maroni non voglio sentire il parere di cicchitto non voglio sentire il parere di la russa non voglio sentire il parere di fini

Non voglio sentire trasmissioni di approfondimento politico. voglio solo vedere il nano con le sue donne tutte intorno che battono le mani sorridenti che applaudono tutte contente voglio vedere il milan che solleva la coppa dei campioni

mercoledì 2 novembre 2011

perché non è ostacolata dalla pelle

io sono già stato qua, tu sei già stato qua. qua e là. adesso non mi vedi, ma io ci sono.
tu dici che noi siamo la nostra memoria, eppure la memoria non esiste.
la memoria è un inganno, perché ci fa credere che esista il tempo.
invece io non sono andato via, sono ancora lì, accanto a te.
non ci sono solo le mie ciabattine azzurre, con cui mi sono asciugato i piedi dopo il bagno.
ci sono i miei piedi, dentro le ciabatte, e il mio corpo è ancora appoggiato sul divano.
sto giocando ancora a uncharted 2, sto rotolando sul letto, sto chiudendo il tubetto del dentifricio, sto correndo.
lo so che è difficile crederlo, come è difficile credere a tutte le cose. però è così.
anche i nostri sensi ci ingannano, a volte. a volte ti sembra di sentire la mia voce, o il mio odore. a volte mi chiami e mi fai sorridere perché alzi la voce mentre io ti sento benissimo, sono lì vicino.
i miei atomi sono nella stanza. nella stanza e dappertutto.
stai tranquillo, papà.

estratti/2

ieri sera ero all’aeroporto, seduto in macchina a fumare, e mi è passata accanto una ragazza, anzi due. una aveva un bel culo, l’altra era più alta e portava gli stivali.
come sarebbe.
sarebbe che poi mi capiterebbe, magari, di doverla spogliare, o di vederla mentre si spoglia, e vederla togliersi gli stivali e le calze, e prima o poi di vederle i piedi.
dovrei sentire il suo odore, l’odore della sua pelle, dei suoi capelli, del suo ventre.
mi toccherebbe di doverle dimostrare quanto sono eccitato e contento di essere lì con lei, proprio con lei, dovrei essere calmo e virile come un amatore consumato, sicuro di me, di quello che sto facendo, di quello che stanno facendo le mie mani e il resto di me, sicuro di come e di dove la sto toccando, e allo stesso tempo anche impetuoso, forse un po’ violento, appena appena, quanto basta, oppure delicato, leggero come un’arietta maggiolina. dovrei fare scorrere la mia lingua sul suo corpo, sul collo magari, dietro le orecchie, sull’ombelico, sulla schiena, e poi dovrei anche baciarla non solo sulla bocca.
mi toccherebbe di assistere alla visione di me stesso che compie gesti, dice parole, si muove.
dovrei concentrarmi e lasciarmi andare, distendermi e preoccuparmi.
e poi dovrei rivestirmi.

oggi è il giorno della commemorazione dei defunti.
che cos’è la morte?
quanti esseri viventi muoiono mentre scrivo queste parole?
muoio. sono morto. morirò. morirei.

se mi abbono, posso vincere il nuovo iPad2.

martedì 25 ottobre 2011

del lavoro

di mestiere io praticamente metto la gente in mezzo alla strada.
io che vivo in affitto difendo i proprietari di immobili.
io che penso che uno una casa dovrebbe averla dallo Stato, così come l'educazione primaria e le cure mediche, di fatto tolgo la casa a chi ce l'ha.
sono soddisfazioni. il mese scorso ho sfrattato una famiglia di rumeni. c'erano due bambine piccole. la maggiore aveva fatto un disegno e l'aveva appeso alla parete della cucina. era il disegno della loro famiglia. quando è arrivato il fabbro e ha cambiato la serratura una delle bambine era seduta sulle scale e mi ha guardato. credo che quello sguardo non lo dimenticherò.

dopo tanti anni di questo mestiere ho enucleato un dato: non ci sono, o se ci sono sono rarissime, quasi zero, le cause promosse da inquilini studenti.
gli studenti che vivono in affitto non fanno causa al proprietario. e questo anche quando ne avrebbero facoltà, e cioè molto spesso. perché molto spesso i contratti sono irregolari, simulati, farlocchi. lo studente paga tranquillo il suo affitto e quando deve andare va.

il motivo di questo fatto, che reputo inconfutabile, anche perchè sono autorevole, è che gli studenti studiano e non lavorano.

quando uno comincia a lavorare diventa una persona peggiore. non solo perché comincia a pensare ai soldi, alla famiglia, alla casa, alla carriera. ma anche perché entra in un mondo brutto. un mondo fatto di meschinità, amarezze, umiliazioni, conflitti e bugie. il lavoro degrada l'uomo.

quando vedo quegli individui che manifestano con gli striscioni chiedendo "lavoro" a gran voce, sono sempre turbato. un po' mi sembrano falsi (perché per me è tutta gente che non ha voglia di lavorare), un po' mi fanno paura (perché non hanno capito niente). inevitabilmente, mi vengono in mente i minatori morti a 900 metri sotto terra. la mort del ratt, come mia madre chiama una morte atroce. il lavoro uccide.

il mio amico guglielmo, anni fa, teorizzava un mondo in cui lavorassero solo gli uomini. non è il solo, io lo so. in effetti un mondo di soli lavoratori uomini forse sarebbe migliore, con buona pace delle ggd. io invece a volte penso che mi piacerebbe un mondo di lavoratrici donne. me ne starei a casa a fare le pulizie, caricare la lavatrice, stirare e rassettare. porterei i figli a scuola e poi andrei a riprenderli, calmo e sereno e felice di vederli uscire dal cancello che fanno casino. farei la spesa, bello tranquillo, preparerei un bel pranzetto, aspetterei con un sorriso la madre dei miei figli quando torna a casa stanca dal lavoro e la coccolerei per bene, e la notte, se tutto va bene, dormirei saporitissimamente. non mi sentirei frustrato per il fatto di fare un lavoro misconosciuto e socialmente non apprezzato o per il fatto di non portare a casa lo stipendio o per il fatto di non poter pranzare coi colleghi o essere in riunione o dire frasi come sono in riunione o minchia che rottura di coglioni il capo o cazzeggiare alle macchinette del caffé o commentare i risultati della domenica sfottendo i triglioni nerazzurri.

non è solo l'etica protestante a menare il torrone col lavoro. qui in italia, che calvinisti non siamo mai stati, abbiamo scritto all'articolo 1 della costituzione che la repubblica è fondata sul lavoro. cioè il lavoro è il valore più importante.

mi sembra un'affermazione deprimente.

perché tutta questa importanza al lavoro? perchè il lavoro è considerato il luogo privilegiato in cui l'uomo (e la donna, beninteso) sviluppa la sua persona e la sua personalità, verticalizza i suoi afflati, concreta la sua ontologia, raccoglie esperienze e strumenti per comprendere l'esistenza?
il lavoro non è nulla di tutto questo. il lavoro è disumano. è tempo sottratto ad altre cose, che sono le cose più importanti.

e quali sono le cose più importanti?

lunedì 24 ottobre 2011

dopo

dopo che avrai usato tutti i tuoi aggettivi e tutti i tuoi verbi; dopo che avrai provato l'indignazione, che avrai sentito dentro i tuoi visceri, fin nei precordi, il disgusto per la classe politica, per i governanti; dopo che avrai manifestato, che avrai scritto, tuonato, gridato, dopo che avrai fatto i tuoi passi, i tuoi gesti, ti sarai scalmanato al bar, per strada, sul tuo blog, con gli amici, con i colleghi; dopo che avrai letto le parole degli intellettuali, degli scrittori, dei registi e ti ci sarai riconosciuto, dopo che avrai saputo, senza dubbio, interiormente, come un fiume che nasce nella pancia e si propaga dappertutto, che non ne puoi più di questo stato delle cose, dopo che avrai sentito montare la rabbia e la nausea, la tua, mentre vedevi la stessa rabbia e la stessa nausea negli altri; dopo che avrai capito qual è la strada giusta e che cosa bisogna fare, e fare subito; dopo che avrai provato e fatto tutto questo, e avrai esposto la bandiera, e avrai mandato i tuoi figli alla scuola d'inglese, e avrai ristrutturato il bagno, e messo le piastrelle nuove, e avrai fatto voto di coscienza, e avrai scelto cosa metterti prima di uscire e avrai parcheggiato la macchina e mangiato la pizza, e avrai conservato e tramandato, e attribuito senso, e tenuto in ordine e dato importanza e segnalato e selezionato e coltivato; dopo che avrai viaggiato tanto, dopo che avrai scelto da che parte stare, con chi combattere, e contro chi; dopo che avrai capito chi sono i buoni, e perché, dopo ampia e matura riflessione; dopo, sarai pronto per incontrare, magari in una grotta, su una scialuppa, in una cella, l'uomo che disprezzi. sarai pronto per incontrarlo, e capire che lui ha il tuo stesso cervello, parla come te, pensa come te, anzi meglio di te, mangia come te, fa la cacca come te, sogna come te, soffre come te, ride come te, e sarai pronto per offrirgli un pezzo di pane, il tuo pane, e sarà l'unica cosa che vorrai fare, l'unica, e quando la farai, per la prima volta in vita tua, piangendo come non ti era mai successo, ti sentirai un essere umano, un fottuto essere umano, e sarai felice come non sei mai stato, e non pensavi saresti mai stato, e ti sentirai libero, e ti sentirai in fondo al mare, con le creature del mare, e in cielo, con gli uccelli del cielo, ti sentirai e pesce e uccello e corallo e piuma e vento e sabbia. finchè non vedrete terra, o si apriranno le porte, e tornerai quello di prima.

mercoledì 19 ottobre 2011

al commissariato

oggi sono andato al commissariato di polizia.
ci sono andato volontariamente, non mi hanno chiamato loro.
una volta mi hanno chiamato, e io mi sono agitato come un pazzo. il poliziotto voleva solo avere alcune informazioni.
la prossima volta che mi chiamano, mi sa che è anche l’ultima.

comunque, ci sono andato perché dovevo denunciare il furto di una moto. la moto di una mia amica. me l’aveva prestata visto che lei non la usava mai. io l’ho usata un po’ e mi sono pure divertito. poi l’ho parcheggiata davanti al mio studio. è rimasta lì ferma per un paio di mesi e poi non l’ho vista più.
forse l’hanno considerata una res nullius.

sì perché ho scoperto questa cosa, da una mia collega. che quando una cosa, per esempio una bici, anche se legata con la sua brava catena e tutto, è ferma nello stesso posto da un apprezzabile periodo di tempo, diciamo qualche mese, è da considerarsi res nullius e quindi chiunque può tagliare la catena, anche davanti a testimoni, e portarsela via. sono certo che hanno fatto così anche con la moto della mia amica. con la quale, nullius o meno, resta la figura di merda, oltre al danno.

c’ero stato anche l’anno scorso, allo stesso commissariato. a denunciare il furto della vespa. la vespa era della mia ex moglie. io ho anche una moto di mia proprietà, ma quella non me la possono rubare, perché se l’è già cattata l’esattore delle tasse.

i commissariati di polizia sono luoghi squallidi. sono lasciati andare. le pareti sono sporche, il pavimento è sporco, ai muri sono appesi cartelli vecchi come il cucco, le porte cigolano, i battenti non si chiudono bene, le maniglie delle porte ballano, le finestre hanno i vetri opachi e unti perché mai lavati. come tutti i luoghi in cui vive l’uomo, il commissariato riflette l’animo di coloro che lo vivono.
i poliziotti che stanno all’ufficio denunce non si divertono. il mio poliziotto però era un ragazzo giovane, di primo pelo. gentile. perché la denuncia fosse valida ci voleva anche la firma del suo superiore, un uomo rozzo, alto, meridionale, con una incredibile mandibola quadrata. uno che parla al massimo del volume, uno di quei funzionari meridionali che si lamentano, davanti a tutti, che devono fare sempre tutto loro.
il mio poliziotto ha steso la denuncia, io l’ho letta, e poi lui ha chiesto al superiore di firmarla. ma siccome non era ancora stampata il superiore gli ha detto che non aveva tempo da perdere e che sarebbe tornato dopo. il giovane ha provato a dirgli che era questione di un minuto, ma il superiore ha infilato la porta ed è fuggito. allora il mio poliziotto mi ha detto intanto la stampo, lei si accomodi pure in sala d’attesa, poi quando torna il superiore le do la sua copia, così mi porto avanti con le altre denunce.
il superiore è tornato dopo venti minuti.

tempo totale dell’operazione: un’ora e dieci minuti.
ovvero 70 minuti, così ripartiti:
prima attesa nella sala d’attesa: 35 minuti
stesura denuncia: 15 minuti
attesa poliziotto superiore: 20 minuti

in sala d’attesa devi prendere un numerino.
siccome, stupidamente, non mi ero portato niente da leggere, dopo aver letto tutto quello che si poteva in quella sala, compresi i comunicati rivolti a chi è vittima di stalking o ha perso il bancomat, e compreso, per intiero, il quotidiano Leggo (che rispetto al passato contiene molte meno inserzioni di società di finanziamento e molte più inserzioni di personaggi che comprano oro per contanti, ciò che mi dice qualcosa), mi sono concentrato sugli oggetti. in particolare la mia attenzione si è soffermata sul simbolo che sta sul distributore dei numerini all’ingresso.
l’ho anche fotografato.




ora, io immagino che l’intenzione del simbologo fosse quella di simboleggiare che col numerino non si salta la coda, cioè non si fanno i furbi, ovvero che si rispetta l’ordine di arrivo al numerino.
tuttavia, anzi proprio per questo, non capisco quella curva che parte dalle gambe e arriva alla testa dell’omino. una curva che sembra una specie di lungo fallo, o cazzo, che arriva a insinuarsi nel cervello. oppure, al contrario, una protuberanza del cranio che si unisce ai genitali, senza soluzione di continuità.
a complicare l’esegesi sta la barra rossa trasversale, che universalmente dovrebbe stare a significare il divieto.

acci, l’ho capito adesso.

divieto di comportarsi come delle teste di cazzo.

versioni

I

non posso sapere com’è la tua notte.
la notte più buia è arancione
in fondo al nero, dietro il nero

senti picchiare dentro le orecchie, e nei denti.
picchiano, pestano i pensieri, del cervello e dello stomaco, e delle gambe.
picchia, martella il sangue, il cuore, i nervi.

la notte è fatta di finestre e di lenzuola
di finestre sorde e di lenzuola ostili

la notte è bello avere la febbre
è fatta per le febbri, la notte
con la febbre si perde il tempo
è vivere fuori dal tempo
in quei sonni di veglia, in quel sudare inconscio
quando incontri i tuoi mostri


II

il vicino di casa tira lo sciacquone, una moto passa sulla strada.
i muri fanno rumore, i tubi, i mobili. niente è fermo, si muove tutto. una specie di tremolio perpetuo, impercettibile, che tocca tutte le cose. la terribile consapevolezza del divenire.

tendi le orecchie, ma è il sangue che si fa sentire
oppure vorresti non sentire niente, ma il tuo corpo urla dentro di te.

morire di sonno e non riuscire a dormire
e gli occhi, aperti o chiusi, fa lo stesso
tanto non c’è posizione che vada bene.

come un drogato, sai già cosa succederà

finché vedi l’arancione fuori dalla finestra
- il colore dell’alba quando non ci può essere alba -
e ti smarrisci

martedì 27 settembre 2011

che puro ciel

domenica 18 settembre 2011

estratti dal diario di pim

17 settembre

decido di cambiare la parabola. montare e smontare impianti satellitari è un'attività che mi provoca piacere. decido di dedicare parte del mio prezioso sabato, un sabato normalmente occupato da film, lacrime e seghe, alla ricerca di materiali specifici. trovo un indirizzo. non è lontano. dieci minuti in macchina.

nel negozio ci sono due addetti. uno, antipatico, sa quello che dice, l'altro no. sono sfortunato: il primo è già impegnato a servire un cliente pieno di problemi. con delle mosse cerco di attendere che si liberi, ma il secondo si fa sotto e io come al solito non riesco ad oppormi. cerco di spiegare quello di cui ho bisogno. non capisce. io stesso faccio fatica a spiegarmi, perchè cerco di essere conciso e rapido, ma sono fosco e titubante. il secondo non può aiutarmi. interpella frettolosamente il primo, il quale è sempre alle prese col cliente problematico e pensa, con i dati di cui dispone, che io non abbia idea di quello che cerco. il che è anche vero, ma non nella circostanza. il secondo mi guarda e non ha più niente da dirmi. il primo sta ancora maltrattando il cliente e non ha tempo né voglia di darmi retta. non riesco a resistere. esco. appena fuori mi lascio andare a un flebile oh signùr. una donna che sta legando la bicicletta pensa che sia rivolto a lei e mi guarda male. mi accorgo che ho una macchia di unto sulla polo. polo che peraltro mi ingrassa.

torno in macchina e sento un dibattito su natura e cultura, al quale partecipa naturalmente salvatore natoli, che parla come un avvocato meridionale, minaccioso e gagliardo. un professore tedesco non è d'accordo con lui. il moderatore di radiotre palesa un'ignoranza avvilente.

mi viene la nausea.

vado in un centro commerciale. le persone che vedo mi rattristano. mi assale una leggera angoscia. passo e ripasso gli stessi scaffali più volte, sperando che qualcosa si materializzi sotto i miei occhi di morto che cammina. chiedo a un commesso. il pezzo che cerco arriva giovedì prossimo.

esco dal negozio brico ed entro al supermercato. devo comprare poche cose. trovo facilmente l'olio e il dentifricio, ma ho difficoltà con l'alcool. chiedo a una commessa. mi dà le indicazioni del caso. non lo trovo. come d'abitudine, vagolo come un sonnambulo tra gli scaffali finchè trovo un secondo commesso. trovo l'alcool. non mi sento molto bene. una ragazzina di dieci anni che indossa una maglietta dei beatles mi dà sollievo (un sollievo pari a quello che proverebbe un uomo che non mangia da tre giorni di fronte alla consegna di un krisproll, ma pur sempre un sollievo). non ci sono molte ragazzine di dieci anni che indossano magliette dei beatles. vorrei farle un sorriso, ma papà e mamma potrebbero male interpretare.

salgo in macchina. l'angoscia è stata sostituita dalla rabbia. a voce alta dico sono stufo di vedere gente che non sa nulla di quello di cui dovrebbe sapere tutto. commessi di libreria che non leggono libri, parabolisti che non capiscono le parabole.

la voce di mio figlio, che mi racconta delle sue preoccupazioni, mi placa un poco.

grazie al mio fedele telefono, trovo un altro posto. l'ultima chance. è dall'altra parte di milano. ci arrivo dopo un'ora. il commesso è antipaticissimo ma, nonostante i miei soliti farfugliamenti, risolvo con lui il problema e mi posso portare a casa il pezzo fondamentale, un tubo verticale con due staffe.

appena uscito dal negozio, comincia a piovere. dovrebbe essere un temporale. appena la pioggia si fa grossa e pesante, parcheggio la macchina nel primo posto utile e scendo. e cammino in mezzo alla strada, solo, con la mia faccia da scemo, e piano piano mi inzuppo.

lunedì 12 settembre 2011

la cosa più triste del mondo

la pubblicità col calciatore fabrizio miccoli che gioca alla roulette.

venerdì 9 settembre 2011

le case delle persone sole

devi andare nelle case delle persone sole. devi aprire gli armadietti, le ante dei pensili, il frigo. guardare nei cassetti. devi guardare il pavimento. il cesso.

quando vedrai gli asciugamani, il colore degli asciugamani; quando vedrai dove stava, dove sta seduta la persona sola, dove, con che cosa addosso; quando osserverai il contenuto dell'armadio e vedrai i vestiti, le grucce. le calze, le mutande. quando vedrai la federa del cuscino, la pentola per le uova, vedrai parlare le cose. le cose che ci sono, e come sono collocate, e dove.

le persone non parlano con le altre persone. parlano con le loro case, se sono sole, se le abitano da sole. se la casa è occupata da più di una persona, allontanati, lascia perdere. è tutto finto, tutto inutile.

nessuno mente a una casa.

devi andare nelle case delle persone sole. le case ti parlano. ti parlano una lingua straziante, perchè è la lingua del vero. e il vero è brutto.

è brutto perchè non ci sei abituato. non ci pensi, non ci arrivi al colore della disperazione.

ed è brutto perchè è sbagliato. perchè le cose smettono di avere un nome, un significato. è sbagliato che la verità stia solo nelle case delle persone sole.

entrare in una casa di una persona sola è profanare la sua nudità, smascherarla, penetrarla. e c'è più terrore in te, in tutto questo. hai paura di commettere lo stupro più infame.

ma ci devi andare, nelle case delle persone sole. devi andare a vedere le fotografie, i barattoli vuoti, le scatoline di plastica. devi sapere perchè le persone comprano cose che non mangiano, lasciano andare cose cui tengono, si aggrappano a una piastrella, guardandola per ore, osservandone le venature, gli angoli, i bordi. perchè ha più importanza il filo scucito del bordo di una poltrona che qualsiasi altra cosa.

devi andare a vedere perchè le persone si affezionano a un pezzo di plastica, a un pezzo di legno, a un ciondolo da quattro lire, perchè ci si aggrappano, perchè ci parlano, al maledetto ciondolo, guardando una fotografia, mentre vanno in bagno, stanche, a piedi nudi, si guardano allo specchio e il volto che vedono non è pìù niente.

la penosa pennetta

la tennista flavia pennetta ha perso ai quarti di finale dello US Open, battuta da Angelique Kerber (che di grazioso ha il prenome), numero centomila del mondo.
Ha perso il primo 6-4 dopo essere stata 4-3 e tre palle del 5-3. Ha vinto il secondo grazie a un po' di braccino dell'avversaria; nel terzo si è trovata 2-0 e palla del 3-0 e ha perso il game. è salita 3-1 e non ha più giocato, regalando all'avversaria il 4-3 con uno splendido doppio fallo, sprecando quattro palle break sul 4-3 e perdendo meritatamente servizio e incontro 6-3.
Trasmessa da Eurosport (da anni ormai skysport risparmia, così può allestire intriganti trasmissioni in cui si parla di calcio, con ospiti del calibro di mario sconcerti, massimo mauro, billy costacurta e pablito rossi, ovvero 16 ore di notizie sportive in diretta affidate a conduttori che hanno la preparazione, l'aspetto e lo spessore umano di agenti immobiliari in franchising), la partita ci ha regalato una prestazione tra le più penose che si possano immaginare. senza carattere, senza talento, senza intelligenza. e così, niente semifinale. e non è che proprio succeda tutti gli anni, di trovare la Kerber nei quarti e la Stosur in semifinale.
Nella tristezza generale, una gemma, già ben nota: la telecronaca di Barbara Rossi, una fuoriclasse assoluta. Se avesse potuto l'avrebbe strozzata, l'orrida Pennetta, lei che una volta l'allenava.
Che andasse a posare nuda per max, la cara flavia. non si vede alcuna ragione per cui dovremmo rivederla su un campo da tennis. con l'eccezione, si capisce, di quello di casa sua.

martedì 6 settembre 2011

kotm

lunedì 5 settembre 2011

oltre al resto

sono scarso.

giovedì 1 settembre 2011

J. D. Salinger

"Una volta, un paio di anni fa, Buddy mi disse una cosa abbastanza sensata (...) Disse che un uomo potrebbe anche giacere ai piedi d'una collina con la gola tagliata, dissanguandosi a poco a poco fino a morirne, ma se una bella ragazza o una vecchia gli passassero accanto con una bella anfora in perfetto equilibrio sul capo, lui dovrebbe esser capace di appoggiarsi a un braccio e tirarsi su fino a vedere l'anfora arrivare sana e salva oltre la cima della collina."

Franny e Zooey, Einaudi ET, p.117

sì, sono un handicappato

e lui diceva papà guarda cosa riesco a fare. sempre. lo diceva in continuazione. erano sempre cose nuove, nuove prove. un'immersione nell'acqua più alta, un tuffo più improvvido. entusiasta, contento. ogni minuto un passo più in là.
avrei dovuto dirglielo io, guarda cosa sono riuscito a fare.
sono riuscito a prenotare un agriturismo, per noi due. a sceglierlo, a trovarlo, ad arrivarci, anche se come al solito mi sono perso, più o meno deliberatamente.
sono riuscito a trovare un bel posto, per stare insieme in un altro modo. cercavo il silenzio, meta difficile, e una piscina grande, possibilmente pulita e poco affollata. la fortuna, forse l'intuito, forse altro, mi hanno assistito.
sono riuscito a fare la spesa, a cucinare.
per me il fatto di essere in quel posto e di riuscire a mantenerlo è stata un'impresa. lo so, è ridicolo, ma è così.
sono riuscito a mantenere mio figlio. ho fatto la valigia, siamo arrivati lì, siamo andati in piscina subito. dopo diverse ore si è trattato di pensare alla cena. allora siamo andati nel paese più vicino, siamo entrati nel primo negozio di alimentari, e abbiamo fatto la spesa, e lui mi ha aiutato. e ce l'ho fatta. ho comprato le cose che servivano. ce l'ho fatta. mi sembra di fare discorsi da handicappato. è così. non credevo di riuscirci. ho cucinato. la prima serata è stata complicata per lui. lo è stata a lungo, fino a notte fonda. gli mancava la mamma. si sentiva in colpa per essere lì, in quel posto, così bello e soprattutto, soprattutto, quello è stato il momento più difficile per lui, con quella stellata. quando ha visto il cielo si è messo a piangere, si è commosso. una stellata così non l'aveva mai vista. e io non me ne ricordo una simile. e la mamma non era con lui a vederla, e lui ha pensato di non avere diritto di vederla da solo (con me), si è sentito in colpa, come se gliela stesse rubando. non riusciva a dormire. è andato in giro a fantasmare fino alle 3 di notte.
il luogo era poco coperto dalla rete telefonica. grandi peripezie e inutili, pessimi tentativi di comunicare con qualcuno. tanto tempo sprecato indegnamente dietro il dannato oggetto. tanto che alla fine si è inventato un disturbo, un fastidio fisico, per attirare la mia attenzione, che vagava irrequieta qua e là. allora abbiamo passeggiato nella notte, tra i muri bassi in pietra a secco, ordinati e puliti, e a piedi nudi sul prato ben tagliato, umido e fresco.
solo al tramonto, e solo al tramonto, strani piccoli uccelli si radunavano sugli ulivi per chiamarsi a gran voce l'un l'altro. difficile scorgerli tra i rami e le foglie fitte. un'assemblea repentina, violenta, misteriosa, quasi una riunione di fuggevoli, innocui cospiratori.
forse l'ampiezza dell'appartamento che ci è stato assegnato mi ha reso più ansioso. una vera casa. una casa intera da occupare, da vivere, fa crescere l'ansia da prestazione. certamente sovradimensionata rispetto ai nostri desideri e alle nostre esigenze. casa afflitta da odori di varia natura, che non sono riuscito a catalogare, nonostante ripetuti tentativi. però c'era una sorta di patio, con tavolo e sedie in legno adagiati proprio sul prato, che temperava i miei affanni e mi faceva immaginare cose strane come soavi partite a carte.
e tutti quegli ulivi.
sì, mi sento quasi sempre come il protagonista di I am Sam; un bel film, un bravo interprete, una bella colonna sonora.

mercoledì 24 agosto 2011

sentiamo l'indice

non riesco a capacitarmi e, come è nel mio carattere, non riesco a non pensarci ogni volta, del fatto che l'acronimo dell'indice dei maggiori titoli quotati in borsa a milano, il cosiddetto FTSE MIB, venga da tutti pronunciato "FUZZI MIB"
questa cosa del fuzzi mi manda in bestia.
a parte la solita patetica cosa da colonizzati, che cazzo c'entra? ma perché? perché fuzzi?
e va bene, non è fuzzi, è futsi? futsi? footsie? tootsie? a parte che tutti dicono fuzzi e non futsi, la cosa non cambia.
ho capito. forse per continguità con fuzzy: l'indice sfuocato, anzi, l'indice confuso. sarebbe geniale. colleghiamoci col nostro inviato per sapere a che punto è oggi l'indice confuso della borsa.
spero che qualcuno abbia già scritto questa cosa dell'indice fuzzy. è troppo idiota perchè sia io l'unico.

teorema di dominicus

al mondo ci sono persone semplici e persone complesse.
le persone semplici amano persone semplici o persone complesse. le persone complesse sanno amare solo persone complesse. che sono rare.

lunedì 22 agosto 2011

e per la seconda volta avevamo le maschere e i boccagli e guardavamo quel mondo colorato e immenso prima invisibile e incredibile, e mentre nuotava mi metteva il braccio intorno al collo perchè aveva un po' paura, tutto quel mondo era troppo, in un secondo.

e c'era una luna a metà, che era proprio rossa, rossa, bassa e grande. e tutte le stelle. e io ero veramente sulla sdraio, e lui era veramente disteso sopra di me, la testa poggiata sul mio petto e le gambe un po' piegate, che mi parlava e mi faceva domande. e poi ci siamo addormentati.

venerdì 19 agosto 2011

adriano panatta

bjorn borg, uomo completamente pazzo e tennista impossibile da descrivere, ha vinto, tra i suoi numerosi trofei, il torneo del roland garros sei volte. vi ha partecipato otto volte. le due volte che non ha vinto è stato sconfitto dallo stesso giocatore.

adriano panatta.

adriano panatta è stato il secondo miglior giocatore italiano di tennis della storia (il primo è stato nicola pietrangeli). non parlo dei risultati, parlo del talento. col suo talento, panatta avrebbe potuto vincere molto, molto di più di quel poco che ha vinto. ma questo è discorso un po' trito, un po' inutile, un po' stupido. quindi perfetto per il contesto in cui viene espresso.

ho letto un libro di memorie tennistiche scritto da panatta. ci sono gli aneddoti, i ritratti dei campioni visti da vicino e fuori dal campo, le cronache degli incontri importanti. è, purtroppo, un libro troppo autocelebrativo. se uno non fosse molto documentato, penserebbe di leggere la storia del più grande di tutti i tempi, il campeador del tennis. i documenti ci tramandano una storia diversa.

panatta aveva un braccio d'oro. purtroppo amava le fettuccine più degli allenamenti. altri, come lui, hanno raccolto poco rispetto a quanto donato loro da madre natura: nastase, leconte, stich, hana mandlikova (giocatrice sublime), jana novotna, il grandissimo miroslav mecir, e sicuramente anche john mcenroe.

come mcenroe, panatta io l'ho visto giocare dal vivo, al torneo wct di milano, quando appunto esisteva ancora il wct, esisteva ancora il torneo di milano (quello serio), esisteva ancora il palazzetto dello sport di milano.

quando lo vidi, adriano era già in fase calante, sebbene giovane. mi sembra fosse in campo contro tanner, giocatore dalle qualità tennistiche infinitamente inferiori alle sue. tanner vinse agevolmente.

mi diverte pensare a roscoe tanner. di tanner si diceva una cosa sola, che era l'unica cosa che si poteva dire di lui, cioè che aveva un servizio-bomba. oggi il servizio-bomba di tanner sarebbe considerato una rimessa in gioco. beata gioventù.

comunque, io mi trovo in tribuna vip, a due metri dal campo, e sto guardando panattone che soffre come un cane contro tanner, e non gliene va bene una.

panattone è in quella fase della vita in cui raschia il fondo del barile. è già arrivato a fare pubblicità alla linea di deodoranti Brut 33 di Fabergé, alle scarpe Forte ("sono la base del mio gioco") e alla racchetta Vip. una volta era cosa meno normale per un tennista fare pubblicità.

è già sotto nel punteggio. il match è in salita e lui sa che non ce la farà.

sta rispondendo. tanner non mette la prima. mentre si prepara a servire la seconda, panatta prende posizione mezzo metro in più dentro al campo. in quel momento un tizio dietro di me gli grida "Adriano, stai più indietro!"

lui si volta verso di noi, affranto, esausto, e parla.

"ma vaffanculo"

questo è quello che posso dire di adriano panatta.

giovedì 11 agosto 2011

la poetica Garnier e la cromoterapia: per un approccio scientifico al volersi bene

sono stato lettore appassionato del settimanale Io Donna per anni.
la direttrice Fiorenza Vallino rispose persino a una mia lettera.

da tempo - attribuisco la colpa al nuovo direttore - la rivista mi piace meno.
quando posso, però, la leggo sempre. nel senso che la leggo solo se non devo comprarla.

il numero del 16 luglio scorso è una miniera. scelgo la pepita più preziosa: a pagina 110 troviamo un articolo di una signora che si chiama Paola Tavella* (rilevo un errore nel sommario).
l'articolo si intitola "giocare a zona". il sottotitolo dice "marcare stretti gli inestetismi di stagione".

ù.

più che i termini mutuati con palpitante originalità dal gergo calcistico, che, sono d'accordo, è opportuno venga democraticamente allargato alle signorine, è proprio il contenuto che mi ha colpito, e affondato.

la Tavella dà alcune raccomandazioni che mi premuro di riportare.
dice l'Autrice che è importante, oltre che la scelta di prodotti adatti per prendersi cura del proprio corpo, anche "comunicare con le parti del corpo che volete migliorare o curare"
per esempio, "inviate messaggi incoraggianti al vostro interno braccia se non ha la consistenza che desiderate, e ai cuscinetti sui fianchi se si ostinano a restare mentre voi vorreste vederli scomparire"
preparata di fronte a comprensibili sussulti, l'Autrice si affretta subito a precisare che "non sono fantasie, è la scienza a suggerirlo" e all'uopo rimanda a "recenti ricerche sul Dna" le quali avrebbero dimostrato che le nostre cellule reagiscono all'atteggiamento che abbiamo verso di esse.
pertanto, insiste, "mentre massaggiate le creme o applicate i fanghi, non dimenticate di inviare messaggi amorevoli alla parte di voi stesse che volete curare"

ma non è tutto.

è importante "visualizzare il colore più terapeutico per ogni zona, secondo i dettami della moderna cromoterapia: rosso per le gambe, arancione per i fianchi e i glutei, giallo per il ventre, verde smeraldo per il petto e blu cielo per il collo e le braccia".

sono d'accordo su tutto. se poi lo dice la scienza, allora siamo a posto.
è importante prendersi cura del proprio corpo, e parlargli.
"non parliamo abbastanza, noi due" sembra dirci, se ci pensiamo.
"perché non mi ascolti?" è un'altra delle sue domande frequenti.
parliamo, dunque, parliamo. dobbiamo parlare di più. mentre ci facciamo la ceretta, ascoltiamo la giornata del nostro polpaccio; incoraggiamo il ventre, consoliamo il piede, sosteniamo con fermezza la coscia, confortiamo il collo, pungoliamo, gentilmente, la palpebra; sussurriamo, non è difficile! qualche parola dolce al nostro sedere. lui vuole sentirla da noi, non solo dagli altri. e noi tante volte lo ignoriamo, giusto? anzi, siamo sempre lì a denigrarci. sono troppo grassa, ho le gambe grosse, corte, storte, ho il naso troppo importante, le orecchie a sventola, il seno cadente, i piedi larghi, i denti gialli, la pancia, le rughe, il culo piatto, il culo largo, la cellulite, le vene varicose, l'acne, i punti neri, la buccia d'arancia, i cuscinetti adiposi, le smagliature!
no. non è così che si fa. dobbiamo fare tutto il contrario, da oggi in poi.

colori e parole gentili. questo è il segreto.

certo, i colori. ma attenzione a non sbagliare. le tette vogliono il verde, verde smeraldo. guai a massaggiarci il seno pensando al rosso: potrebbe sgonfiarsi, immelanconito, o scoppiare d'ira, furibondo. e il blu, per carità, che sia un blu cielo.

adesso vado a letto. per prendere sonno più in fretta indulgerò al buon vecchio autoerotismo. il problema è che non so che colore pensare, affinché l'operazione si svolga nel modo migliore per tutti.

proverò col nero. nero buio.

ù.

*Giornalista e scrittrice, vive a Genova dove è nata. Oltre a guadagnare il pane (e talvolta le rose) per sé, i suoi figli e il cane Stella, insegna yoga kundalini, coltiva le piante e si gode il buon tempo con le sue amiche.
che profilo accattivante, eh?
noi maschi senz'altro ci ritroveremmo in un profilo omologo:
Mario, operaio specializzato, vive a Sesto San Giovanni, ma è originario della Calabria. Quello che rimane dello stipendio, pagato il mutuo e la soppressata, lo spende per seguire in trasferta la sua squadra del cuore. Il resto del tempo libero lo passa al bar, dove si ubriaca, bestemmia e tocca il culo alla cameriera.

venerdì 5 agosto 2011

enimmi

Io non l'avevo capito che Zumbo era depresso.
Zumbo.
era il mio professore di educazione tecnica alle medie (o si diceva applicazioni tecniche? non mi ricordo). perse la moglie, restò vedovo. si mise un bottone a lutto sulla giacca, una giacca grigio chiaro, per lui una divisa.
non so perchè a me mi chiamava buratti. io non mi chiamo buratti. e il mio cognome non assomiglia per niente a buratti. buratti era uno che era stato mio compagno in seconda media, da ripetente. e venne bocciato pure quell'anno, se ben ricordo. alle medie io in classe avevo gente di 18 anni. erano parcheggiati lì fino alla maggiore età. poi li cacciavano via e potevano finalmente andare a lavorare.
vabè. Zumbo era strano. era meridionale, piccoletto, grasso e pelato. nel complesso non bello, come uomo. faceva sempre le stesse battute, a cui rideva solo lui (come me). per esempio quando faceva una domanda facile e tutti si affrettavano ad alzare la mano o a parlare, lui interrompeva e diceva, alzando un dito, e quasi balbettando per l'emozione: "un... un fesso per volta". forse oggi mi farebbe ridere, questa battuta. se fossi in classe ora, davanti a Zumbo, con la sua giacca col bottone nero, e lui dicesse "un fesso per volta" riderei come un matto.
all'epoca no. quando sei ragazzino non capisci molto. mi correggo. quando io ero ragazzino non capivo molto delle cose, delle persone, delle situazioni. non capivo niente.
l'unica cosa che capivo era che Zumbo aveva sofferto molto per la morte della moglie. si vedeva.
però per esempio non capivo perchè ci accompagnasse sempre lui alle gite. a tutte. a tutte le gite c'era lui. il problema era che vomitava sempre. vomitava sempre, e vomitava solo lui. tutte le volte sul pullman c'era il vomito del prof. Zumbo, che era stato male.
io non lo capivo che lui ci veniva, alle gite, perchè era solo, era triste, e ce la metteva tutta per continuare, e stare coi ragazzi gli faceva bene, era bello poterli accompagnare da qualche parte, magari anche sgridarli mentre facevano casino, ma stare con loro. e se anche c'era di mezzo il mal d'auto, pazienza.

erano in due, ad insegnare educazione tecnica o come si diceva (e ora mi chiedo se esiste ancora quella bellissima materia, che comprendeva, tra le altre discipline, anche il disegno, quello tecnico, quello dove c'era da usare la squadra, e c'erano le assonometrie isometriche e le proiezioni ortogonali, e i miei lavori erano pieni di errori, di ditate nere, di cancellature fatte male).

erano in due. noi avevamo Zumbo e la Moschella.
è vero. non li ho inventati. erano Zumbo e la Moschella.
la Moschella era anche lei meridionale, piccina, ma più alta di Zumbo, e non molto affascinante, però un po' meglio di Zumbo. erano una coppia ben affiatata. non mi ricordo però perchè erano in due. tutte le materie avevano un insegnante solo, tranne educazione tecnica. chissà perchè. della Moschella mi ricordo che usava sempre un avverbio, le era molto caro. diceva "squisitamente".
io non capivo bene la pronuncia della Moschella. non capivo bene quell'avverbio. capivo il senso ma non la parola. adesso però ogni tanto lo uso anche io, quando scrivo.

la prof. di italiano si chiamava Zanframundo. certi cognomi ce li hanno solo gli insegnanti e i guardalinee del pallone. di lei mi ricordo che era brava, e che una volta scoppiò a ridere a un mio gesto. rimasi scioccato. stavo leggendo un passo di una materia che si chiamava "epica" e quando lessi che lui e lei si danno un bacio feci un gesto con la mano come a dire addirittura e lei rise come una pazza e si vergognò molto perchè nessuno tranne lei aveva visto il mio gesto e nessuno quindi capiva cosa ci fosse da sghignazzare di fronte a un bacio, per di più abbastanza rovente.

la prof di storia e geografia si chiamava Bara.
Bara.

la prof di educazione artistica si chiamava Trevisani. di quella materia ricordo i miei disegni orrendi di cui mi vergognavo come un ladro, e del libro. ogni anno, al principio dell'anno scolastico, mio padre andava in libreria a comprare i libri di testo. quello di arte costava settanta carte e la prof ogni anno diceva non lo comprate tanto io non lo uso. e mio padre lo comprava lo stesso e io ci restavo male per lui. la Trevisani era come l'assassina del film profondo rosso. uguale.

la prof di matematica si chiamava Danesi ed era abbastanza simpatica. diceva sempre "classe differenziata", che per lei, che insegnava matematica e non italiano, voleva dire che c'erano alcuni bravi e altri molto meno bravi. la Danesi una volta la incrociai in corridoio e mi disse ma cosa ci fai in giro tu, torna in classe. e io scappai via, anche perché ero già al ginnasio.

il prof. di musica, almeno per un paio d'anni, prima che il destino lo portasse altrove, era il sig. Gaetano Gaudiano.
si chiamava così. era meridionale anche lui (nella nostra scuola ce n'erano tanti, di professori del sud, per esempio Averàimo, che insegnava ginnastica, e che meriterebbe un post a parte - chissà) e molto severo. era sempre incazzato. per me era completamente pazzo. pazzo da legare.
il primo giorno disse a me, che ero al primo banco, tu hai la fronte alta, devi essere intelligente.
Lo stesso primo giorno ci fece aprire il quaderno e ci dettò il testo di una canzone da lui stesso scritta. naturalmente ne aveva scritta anche la musica, che era una scala dal do al do e ritorno, da farsi col flauto, il flauto hohner, che era obbligatorio avere e studiare.
Certo che se uno ci pensa è incredibile ‘sto fatto del flauto. Almeno nei paesi socialisti seri gli insegnavano gli scacchi, ai bambini. Noi invece, tutti con quel ridicolo flauto. Ma perché proprio il flauto? Non era meglio il pianoforte, la chitarra? Per me si decisero per il flauto sulla base della considerazione che anche il bambino più povero se lo poteva permettere e anche il bambino meno dotato sarebbe riuscito a suonarlo.


La canzone di Gaudiano faceva così:

O patria nostra, terra d’incanti (do grave – do acuto; due volte sul fa: "nostra" e due sul do acuto)
i nostri canti sono per te. (discesa)
Di messi opime tu sei feconda (su)
e il sol t'inonda del suo fulgor (giù)

Tralascio ogni commento sulle "messi opime" (forse addirittura "opimi" nell'originale - non so se pecca la memoria o la pietà) e sul tema patriottico per dire, trattandosi di post ombelicale, che la canzone di Gaudiano turbò non poco la mia mente, per anni a venire.

sono partito da Zumbo e avrei dovuto fermarmi lì.

il relatore della mia tesi di laurea, il prof. Gnoli, mi disse Lei ha una grande dote, il dono della sintesi.

non credo ci abbia preso molto.

però con l'occasione lo saluto, perchè gli ho voluto bene, a lui, a Zumbo, alla Moschella, alla Bara, alla Danesi e alla Zanfra.

e saluto, anche se non c'entra niente, ma forse un po' sì, anche Luigi.
anche lui andava alla scuola media statale Gaetano Negri.

Anche la scuola, non c'è più.

lunedì 4 luglio 2011

una carezza ci cancellerà

l'impareggiabile fabio caressa è, ovviamente e purtroppo, tra i telecronisti al soldo di sky che seguono e commentano l'importante torneo di calcio sudamericano che si chiama coppa america (rectius copa america).
ieri c'era la partita brasile-venezuela. caressa la parola venezuela la pronuncia "venesuela". non è un scherzo, è vero. dice venesuela, con la esse.

non riesco a immaginare niente di più ignorante (e io ho ben presente esempi illustri, vedi luigi colombo che per tutta la vita ha sempre detto under 21, con la U, oppure lino ceccarelli, che non sapeva parlare italiano, guido oddo che commentava il tennis, i freaks al completo di 90° minuto, le telecronache delle gare di sci dell'ineffabile furio focolari o di alfredo pigna, l'orrido massimo marianella, mario poltronieri e via via tutti gli altri - me li ricordo tutti, le telecronache sono il mio palllino).

chissà come pronuncia argentina, o messico. arhentina, mehico, con la acca aspirata? no. caressa è talmente stupido che riserva questa sua scelta filologica filoispanica ispanofona al venezuela.
forse caressa è venezuelano, ha lontani parenti venezuelani, o italiani emigrati laggiù nei primi del '900. i carezza, che piano piano piano hanno perduto la zeta, la zeta che si assibila.

lunedì 13 giugno 2011

il problema del pompaggio

il mio amico Jules D. si è presentato l’altro giorno. era come sempre ben vestito e sicuro di sé.
come sempre ci siamo messi a parlare di politica. Jules è uno che ha le idee chiare. a me piacciono molto le persone che sono convinte di quello che dicono. provo per loro una immediata simpatia, anzi, posso dire che mi affascinano.
forse per via dei referendum, il discorso è caduto sulla questione dell’energia.
e allora Jules si è messo a spiegarmi che non abbiamo bisogno delle centrali nucleari, per questo e quest’altro motivo, ha parlato della francia, dell’algeria, del gas, delle centrali idroelettriche, del problema, grave, della dispersione (ha detto che sulla dispersione ha ragione Vendola), poi ha parlato della lotta tra Enel e Terna, le quali litigano per i pompaggi. sono quello, ha detto Jules, il vero problema, il problema attuale in materia di energia.
io alla parola pompaggi sono rimasto a bocca aperta.

nel senso che non ne sapevo niente, di questa cosa. io nemmeno so che cos’è Terna. non so un cazzo. non so niente del gas, dei gassificatori, dei rigassificatori, degli oleodotti, del petrolio, della luce, delle fonti rinnovabili, dello sviluppo sostenibile (ma cosa vuol dire questa parola, sostenibile?), delle centrali nucleari, delle energie alternative, delle centrali idroelettriche. non ne so talmente niente che non pago neanche la bolletta. ogni tanto mi arriva una raccomandata dall’ente gestore (A2A) che mi minaccia di tagliarmi i fili se non pago. allora io vado su internet e pago un po’ di bollette arretrate.
non ho alcuna opinione in merito. conviene investire sul fotovoltaico? sull’eolico? costa di più? rende di meno? è bello? è brutto? sono più belle le pale eoliche o i pannelli solari? le pale sono brutte, dicono, e poi ci vanno gli uccelli dentro. come il ponte sullo stretto, che manda in confusione i pesci, gli fa perdere l'orientamento.

e poi, peggio, non mi documento nemmeno. non vado su internet per saperne di più, non leggo il giornale e non guardo le trasmissioni con i politici che parlano di questi argomenti.

dopo un po’ Jules se n’è andato, lasciandomi un po’ intontito ma ammirato. per dieci minuti mi è sembrato di avere di fronte un biondo dio pagano, con gli occhi azzurri, la barba e tutto.
il giorno dopo su radio 24 c’era ermete realacci, il quale ha detto che Enel e Terna stanno litigando.
e lo sapete perché? ha detto realacci

sì, io lo so.

lunedì 30 maggio 2011

p. diaz


rimane sempre la coppa italia

giovedì 26 maggio 2011

Grazie Rai

anche io ho avuto i miei sette minuti di celebrità e immortalità.

martedì 17 maggio 2011

verità è bellezza

Da me manca la progettualità.
Manca il detersivo, anche.
Adesso, tra poco, tra un mese, comincerò, forse, una terapia a base di inibitori della ricaptazione della serotonina. Dice che l’uccello non si smolla, si fa solo un po’ più di fatica ad arrivare. Chissà. Farò sapere.
Le donne sono creature meravigliose. Cosa c’è di più meraviglioso di accarezzare le gambe di una donna, tuffarsi nel suo seno.
Ieri una donna, una bella donna bionda in bicicletta (come sono sexy le donne in bicicletta!), senza occhiali da sole, mi ha guardato. Mi ha guardato per tre volte. Mi ha stupito molto. Forse mi trovava buffo, o strano, con i capelli che porto e questi ridicoli baffi che non sono baffi. Non credo abbia avuto altri pensieri, anche se sarebbe stato bello. Spesso penso a come vivono quelle donne, e sono tante, che sono ogni momento bersaglio di sguardi, allusioni, battute, gesti, avances di tutti o quasi tutti gli uomini che incontrano.
Mi piacerebbe vivere un giorno da Buddy Love. Quella soggettiva strepitosa.
La mia miserabile arte, figlia di un miserabile dolore.
Non so aggiustare le cose, anzi, le spacco tutte. Spacco anche i coglioni, spesso e volentieri.
I politici vanno in televisione. Giulio Tremonti, un idiota complessato che si sente chiamato dal destino a comparire nei libri di storia, sarà il prossimo presidente del consiglio dei ministri. Bisognerebbe che qualcuno lo uccidesse prima. Un gruppo, un paese, una nazione che funziona, funziona tanto più quanto meno valore attribuisce alla vita dei suoi componenti. L’equipaggio è sacrificabile, per la missione e per definizione.
Qualcuno ucciderà Tremonti. Qualcuno, forse, ucciderà il professor Umberto Veronesi. Qualcuno dirigerà film. Non sono, queste azioni, commensurabili.
La verità aritmetica non può essere definita all'interno dell'aritmetica, secondo il teorema di Tarski.
Alcuni dicono che il sistema può conoscere se stesso. No. Non esiste sporco impossibile, secondo il secondo teorema di Gödel.
La ginnastica aerobica. Resterei per ore a guardarla. La vetta del non-senso.
La matematica, la filosofia, l’amore.
Tu guadagnerai il pane col sudore della fronte.
E io? Io vorrei passare tutto il resto del mio tempo a succhiare grossi cazzi di transessuali.

pasqua di resurrezione

c'è l'uomo dentro all'uovo. si schiude l'uovo ed esce un uomo. ma l'uovo è l'uomo, e l'uomo, uovo. l'uomo ha l'uovo ed è uovo, ma non fa l'uovo. ogni uomo tuttavia ha in sè un uovo che si deve schiudere e che contiene il suo vero uomo. ovvero l'uomo è l'uovo di se stesso.

ma l'uovo dell'uomo è anche l'uovo del mondo. nell'uovo, tutto il mondo, tutto il mondo dentro un uovo, tutto un mondo a forma d'uovo dentro un sol uomo.

mangiamo un uovo e mangiamo noi stessi, schiudiamo noi stessi mentre apriamo i gusci, e dentro ogni uovo, il rosso e il bianco, il sangue e la pace. apriamo noi stessi, piccole uova, al mondo e a noi stessi. risorgiamo come l'uovo del mattino al calore del sole. piano piano, picchiettando, dall'uovo uscirà la testa, la testa d'uovo.

schiuditi, uovo, risorgi, uomo. ogni giorno, un uovo. ogni giorno, un nuovo uomo. un nuovo uovo per essere ogni giorno uomo.

lunedì 16 maggio 2011

in gita, apologando

Il destino, buontempone, ha mandato mio figlio in gita il giorno 13 maggio, due giorni dopo il mio ultimo post.
Davanti all'ingresso della scuola, prima che suoni la campanella, i bambini sono tanti. Mollano gli zaini e giocano. Si rincorrono e parlano. Ci sono le mamme e qualche papà. Le mamme davanti alle scuole sono sempre ingrugnite, hanno sempre fretta, sempre qualcosa di urgente da fare, anche se non devono andare a lavorare, e attendono con ansia l'apertura del cancello. Anche quando aspettano i figli all'uscita hanno fretta, e li tirano per mano, perché non hanno tempo da perdere. Tra queste mamme e pochi papà ci sono io, che per una volta non ho fretta e osservo. C'è una bambina graziosa con le trecce che cerca l'attenzione di mio figlio. Lui però è tutto per la sua fidanzatina, che lo accoglie con un bacio sulla guancia. A un certo punto entra un scena un personaggio insolito: arriva un cane randagio, di taglia medio-grossa, di colore beige. Cammina piano, ha un'aria buona. I bambini d'acchito sono spaventati, anche perché le terribili mamme cominciano ad agitarsi. Spaventati ma curiosi, perché capiscono subito che il cane non farà loro alcun male. Il cane gironzola tra loro piano piano, nel cortile antistante l'ingresso. Sta cercando qualcosa, forse una carezza, forse cibo o acqua. I bambini non hanno il coraggio di accarezzarlo anche se lo vorrebbero, tutti. Le mamme urlano i loro allarmi che per fortuna si perdono nel vociare generale. Al passaggio del cane, i bambini si fanno da parte ma lo seguono e gli stanno vicini, come gli spettatori a bordo strada sulle tappe di montagna. Il cane va avanti e indietro, si gira, va a destra, poi a sinistra, lentissimamente, circondato dalla curiosità e dall'affetto istintivo di quel nugolo di colori e voci e occhi. Finché, come un re misconosciuto tra il suo popolo, si ferma, e guarda. Si guarda intorno, muto, con i suoi occhi gentili, pazienti come a dire possibile che non capite? e poi, esausto, si butta a terra e resta lì, immobile, lui che sa tutto, tra i bambini che sanno tutto. E però cane e bambini non si toccano, non si parlano. Poi suona la campanella.

Io aspetterò che arrivino i pullman, che i bambini escano nel cortile posteriore, che salgano su, e che mio figlio mi saluti con la mano. Aspetterò di vederlo partire per la gita, sapendo che tornerà, mentre il cane, stravaccato a fianco a me, riceverà una carezza, che non sarà abbastanza.

mercoledì 11 maggio 2011

bimbi

Non c'è nulla di più bello da vedere, nemmeno un albero o un fiume, di una classe di bambini piccoli in colonna che si gode una gita, lontano dalla scuola, fuori dall'aula, lontano dalle mappe sdrucite e gialle e vecchie appese alle pareti, alla cattedra con gli spigoli smangiati, ai banchi imbrattati di noia e disillusione pieni di cicche masticate appiccicate sotto, lontano dalle pareti sporche, dalle lezioni, dalla lavagna, dai bidelli, dal cancellino e dai gessi, lontano dal campanello, dal registro, dalle sedie storte. Niente di più bello dei bambini che si tengono per mano, che formano gruppetti, che scherzano e fanno rumore e si raccontano storie e si fanno dispetti e nel frattempo camminano, all'aria aperta, dietro l'insegnante stanca, che fa fatica e arranca. Bambini colorati e allegri che si scambiano figurine, si tolgono il giacchino perché fa caldo e se lo annodano alla vita, si chiamano e si prendono in giro. Ed è bello perché sono insieme, e perché sono tanti, e perché sono in gruppo, perché la strada gli appartiene, la città gli appartiene, e i prati e i semafori e i marciapiedi, mentre l'insegnante, come la scuola, poco a poco sfuma, si dissolve, non c'è più, non c'è più corpo, voce, figura, simbolo, autorità e loro sono dannatamente, finalmente, per un'ora, liberi.

lunedì 9 maggio 2011

18

bentornato a casa, figliolo.

giovedì 7 aprile 2011

hamenais

mi piacciono i film degli anni 70 quelli con le spie le valigie e gli aeroporti ci sono sempre gli aeroporti con gente misteriosa che parte che arriva con gli impermeabili o le giacche di pelle e le valigie o le valigette zeppe di microfilm o di documenti. gente che parte che va che arriva. macchine nere mercedes nere parcheggi foschi, piovosi. macchine che partono dagli aeroporti gente che arriva aerei che partono. metafisica della spia che viaggia che scende dalle scalette dell'aereo che sale che entra in queste lounge tristi plastificate con questi colori arancioni marroni. mi piacciono questi film anni 70 di spie arancioni.

venerdì 11 marzo 2011

c'era

una roba da film italiano, di quelli con mastroianni
le ho già scritte tutte, queste cose. e pazienza.
c’era Edoardo, che scriveva da dio, e che fu bocciato per due volte, e dovette mollare il ginnasio, ed era l’unico che avrebbe dovuto esserci, lì, era l’unico che sapeva scrivere, cazzo come scriveva. era un genio. e fu bocciato. chissà dov’è ora. non scrive libri, ed è un peccato.
c’era Armando, tanti anni prima, che era figlio di genitori anziani, e terroni, e lo prendevano tutti per il culo perché era bruttino e sfigato, e non giocava a pallone come gli altri e non mangiava con gli altri, e si vestiva strano, più strano degli altri. e piangeva, ogni tanto.
c’era Piero, che aveva un papà che lo portava in piscina, e lo faceva giocare a tennis, e ogni giorno gli dava la vita che avevano tutti gli altri, anche se lui non era come gli altri. c’era Piero che una sera d’estate si mise a suonare l’armonica a bocca, nel silenzio del giardino, fuori dalla finestra, e lo sentii cantare maledetta primavera, con la sua voce sgangherata, bavosa, impastata, e il suono di quelle note storte, tutte fuori posto, e le parole sbagliate e fuori tempo, e lui però era felice di cantare, per se stesso e per gli altri, e di suonare la sua canzone con l’armonica, e io sentivo il mio cuore battere male, era un’emozione troppo forte e mi veniva da piangere e non ci riuscivo, mentre lo guardavo di nascosto, tra i rami del glicine del mio balcone. e ancora adesso, maledetta primavera.
c’era Riccardo, con cui scrivevamo i nostri racconti a quattro mani, che si arrabbiava spesso, che aveva il senso del giusto, del bello e del vero, c’era Riccardo tante volte, tanti giorni, tante parole, tante immagini. Riccardo che c’è ancora e per sempre, in una vecchia videocassetta, mentre ride con me e con Massimiliano.
c’era Alberto, che aveva i maglioni lisi sui gomiti, che rideva col naso perché non voleva farsi beccare dai professori, lui che era al primo banco con me. ci volevamo bene, io e Alberto, ma non eravamo amici, troppo distanti. ci volevamo bene senza dircelo, non eravamo capaci. non ce l’ha fatta, anche per lui troppo dolore, e tanta incomprensione intorno a lui. sarebbe bastato poco, come sempre.
c'era Marco, che era talmente grande che ti sentivi in colpa tu per essere sano, e scriveva poesie, e aiutava tutti, e non faceva male a nessuno, mentre molti lo facevano a lui. c'è, sicuramente, ed è ancora grande.
c'era, c'è Francesco, che è incapace di fare il male, un angelo semplice, un cuore pulito, un'altra vita iniziata dentro una vita. un esempio.
c'era...

mercoledì 9 marzo 2011

l'inganno del lotto 49


“You are a liar! You are an impostor. You are a deserter. I suspected you this morning, and your lies and folly have confirmed this to me. You pretend to carry dispatches to a British general who has been dead these ten months. You say your uncle is the British Ambassador in Berlin, with the ridiculous name of O'Grady.” (Stanley Kubrick, Barry Lyndon)


People said we couldn't play
The called us foul-mothed yobs
But the only notes that really count
Are the ones that come in wads
They all drowned when the air turned blue
'cos we didn't give a toss
Filthy lucre, ain't nothing new
But we all get cash from the chaos
The time is right to do it now
The greatest rock'n'roll swindle
The time is right to do it now
E.m.i. said you're out of hand
And they gave us the boot
But they couldn't sack us, just like that
Without giving us the loot
Thank you kindly a & m
They said we were out of bounds
But that ain't bad for two weeks work
And 75,000 pounds
The time is right to do it now
The greatest rock'n'roll swindle

(Sex Pistols, The great rock’n’roll swindle)


Improvvisamente, mi ha detto lei, sono tornati sugli scaffali delle librerie tutti i libri di Thomas Pynchon.
Mai letta una riga, mi son detto mi tuffo.
Ero a Catania. Non potevo aspettare, un po’ per bramosia di leggere le prime pagine del Genio, un po’ per paura che scomparissero di nuovo. Vado alla Feltrinelli di via Etnea, dove, come da informazioni assunte via internet, sapevo di trovare una certa disponibilità (una copia per ogni libro). Mi presento alla simpatica impiegata, alla quale do indicazioni precise. Naturalmente non trova nulla, perché scrive il cognome dell’autore con la i e non con la y. Il terreno culturale dell’impiegato medio di una libreria Feltrinelli comprende un’area che più o meno va da Che Guevara a Madre Teresa. Poco male. Ci sono tutti. Ne scelgo due: l’incanto del lotto 49 e l’arcobaleno della gravità. Se mi piace come scrive, domani torno e porto a casa il resto.
L’incanto del lotto 49 è il più famoso di tutti, e anche il più breve. è il libro che, unanimemente, ha consacrato Pynchon il più grande scrittore americano degli ultimi 50 anni. il maestro della letteratura postmoderna (un termine che trovo alquanto postmoderno). scelgo lui, per cominciare la mia immersione nel Sublime.

Ho letto le prime pagine e sono rimasto un po’ stranito. Forse non sono nella giusta disposizione d’animo, mi son detto. Forse non sono concentrato abbastanza, sono distratto. Ho ricominciato. Due, tre volte. sono andato avanti. 50, 70, 90 pagine. Mi sono posto il problema della traduzione, sai mai che Massimo Bocchiola sia stato a lungo interessato da fastidiose coliche intestinali. Brevi ricerche hanno smentito l’ipotesi (sebbene il titolo italiano sia furbetto, perché non molti, fuori dalle aule di giustizia, e anche dentro, utilizzano la parola "incanto" per dire "asta", anche alla luce del fatto che l'"incanto", in originale, è un "pianto"). Insomma, alla fine, il verdetto era, tristemente, sotto i miei occhi.

L’incanto del lotto 49 è una cagata pazzesca. Non saprei come altro definirlo. Ma ci provo.
Prima di tutto è scritto veramente male. Poi potremmo dire che, già forse proprio per questo, e anche per la sovrabbondanza di citazioni storiche e letterarie completamente fine a se stesse e per un profluvio di rimandi a guerre, personaggi, miti senza alcun costrutto, è la più grande truffa letteraria del secolo (scorso). La più grande beffa, il più clamoroso esempio di presa in giro delle masse, dei parrucconi, degli editori, degli intellettuali e dei lettori tutti da parte di un autore. altro che cimitero di Plaga. Umberto E. ha ancora molto da imparare. In ogni caso, T.P. è un genio.

Fare mostra di sapere cosa sia un in-folio o un in-quarto non significa aver compreso shakespeare. Più che altro, a me il libro ha ricordato le gesta erotiche di squaw pelle di luna, o l’ira funesta dei profughi afgani che dal confine si spostarono nell’iran.
Ma la cosa amareggiante è che l’autore crede di saper scrivere. le ultime pagine sono quelle più preziose, quelle in cui si è spremuto l’olio sacro, in cui il nostro ha sputato sangue, ha barcollato, corretto, scritto, riscritto, appallottolato, strappato, letto, riletto e riletto.

e viene fuori questa cosa qui.
"Cosa restava da ereditare? Quell’America cifrata nel testamento di Inverarity, a chi apparteneva? Pensò ad altri vagoni merci, immobilizzati, dove i bambini sedevano sulle assi del pavimento a cantare come topi nel formaggio tutta la musica che usciva dalla radiolina della madre; ad altri abusivi che stendevano i teli delle loro capanne dietro sorridenti cartelloni lungo tutte le autostrade o dormivano nei cimiteri delle automobili, negli abitacoli denudati di Plymouth incidentate; o addirittura, arditi, passavano la notte come bruchi in cima ai pali, nelle tende dei guardafili, dondolando tra una rete di fili telefonici, proprio all’interno delle sartie di rame e del miracolo laico della comunicazione, impassibili ai muti voltaggi che guizzavano per i chilometri della loro estensione, tutta la notte, nelle migliaia di messaggi non uditi"

e che dire di questa fine e profonda analisi psicologica dell’eroina del libro?
"Mi stanno spogliando, disse mentalmente Oedipa – sentendosi una tenda in un’altissima finestra, che fluttua in su verso, e poi in fuori sopra, l’abisso – a uno a uno mi stanno spogliando dei miei uomini. Il mio analista, con gli israeliani alle calcagna, è impazzito; mio marito, dedito all’LSD, brancola come un bambino sempre più addentro a una fuga infinita di stanze nell’elaborata casa di zucchero del suo io e lontano, disperatamente lontano, da quello che sembrava, io speravo per sempre, amore; il mio unico amante extraconiugale si è dato alla fuga con una quindicenne depravata; la mia migliore guida per risalire al Tristero si è annegata. E io dove sono?"

e ancora
"I mal di denti si aggravarono, sognò voci disincarnate di una malignità senza scampo, il morbido crepuscolo degli specchi da cui era lì lì per uscire qualcosa, e stanze vuote in attesa di lei. Un normale ginecologo non aveva test appropriati per ciò di cui era gravida."

oppure
L’attraversò portando il suo libro voluminoso, attratta, titubante, estranea, desiderosa di sentirsi importante ma consapevole di quanta ricerca fra universi alternativi sarebbe stata necessaria: poiché lei aveva studiato in un’epoca di nevrastenia, blanda moderazione e ripiegamento non solo tra i suoi condiscepoli, ma anche in gran parte della struttura visibile attorno e innanzi a loro, essendo ciò un riflesso nazionale a certe patologie nelle alte sfere che solo la morte aveva potuto curare, e questa Berkeley non era affatto la sonnolenta Siwash del suo passato, ma più affine a quelle università dell’Estremo Oriente o dell’America Latina di cui si legge, veicoli di cultura autonoma dove si possono mettere in discussione i folklori più amati, cataclismiche di conclamate contestazioni, suicidarie d’impegni scelti e assunti - di quelle che abbattono i governi”.
(tutti i passi sono tratti dalla edizione einaudi stile libero 2005)

La struttura c'è, ma la storia non esiste; la forma è modesta, ma in compenso i personaggi sono bellissimi e simpaticissimi. di uno spessore antropologico e psicologico pari a un dipresso a un centesimo di una qualsiasi figura minore dei Simpson.

Accanto a Oedipa Maas, la protagonista indiscussa, c'è per esempio lo psichiatra folle, che si chiama Dottor Hilarius, c’è Mike Fallopian, che fa propaganda per la Peter Penguid Society, c’è un’opera teatrale, centrale nel romanzo, che si chiama La tragedia del Corriere, che narra le vicissitudini del ducato di Squamuglia e del confinante Faggio, c’è il regista, Randolph Driblette, che rivela l’esistenza di un frammento importantissimo; c’è Stanley Koteks, della società Yoyodine, c’è John Nefastis, inventore della Macchina Nefastis, costruita sul modello del celebre Diavoletto di Maxwell, che spiega le relazioni tra la termodinamica e il flusso delle informazioni; c’è Gengis Cohen, il più eminente filatelico di Los Angeles, che introduce l’eroina del libro nel mondo dei francobolli della Thurn und Taxis, il sistema postale sedizioso e misterioso, alternativo a quello nazionale, che condurrà al mistero di Tristero; ci sono Manny Di Presso, una sorta di avvocato-attore, e Anthony Giunghierrace, detto Tony Jaguar, che sanno tutto su un mercato occulto di ossa di cadaveri italiani della seconda guerra mondiale; c’è Emory Bortz, professore di letteratura, che rivela l’esistenza di una copia “pornografica” della Tragedia del Corriere conservata presso gli archivi vaticani.

Che cosa posso dire? se c’è chi si straccia le vesti perché ancora non hanno affibbiato il Nobel a Cormac McCarthy, ci può pure stare chi glorifica T. Pynchon.
Per me, forse perché faccio un altro mestiere, la letteratura è un’altra cosa.
per esempio, questo, è uno scrittore.
Debbo la scoperta di Uqbar alla congiunzione di uno specchio e di un'enciclopedia. Lo specchio inquietava il fondo d'un corridoio in una villa di via Gaona, a Ramos Mejìa; l'enciclopedia s'intitola ingannevolmente The Anglo-American Cyclopaedia (New York 1917), ed è una ristampa non meno letterale che noiosa dell'Encyclopaedia Britannica del 1902. Il fatto accadde un cinque anni fa. Bioy Casares, che quella sera aveva cenato da noi, stava parlando d'un suo progetto di romanzo in prima persona, in cui il narratore, omettendo o deformando alcuni fatti, sarebbe incorso in varie contraddizioni, che avrebbero permesso ad alcuni lettori - a pochissimi lettori - di indovinare una realtà atroce o banale. Dal fondo remoto del corridoio lo specchio ci spiava. Scoprimmo (a notte alta questa scoperta è inevitabile) che gli specchi hanno qualcosa di mostruoso. Bioy Casares ricordò allora che uno degli eresiarchi di Uqbar aveva giudicato che gli specchi e la copula sono abominevoli, poiché moltiplicano il numero degli uomini. Interrogato sull'origine di questo detto memorabile, rispose che The Anglo-American Cyclopaedia lo registrava nell'articolo su Uqbar. Nella villa (che avevamo presa in affitto ammobiliata) c'era un esemplare di quest'opera. Nelle ultime pagine del volume XLVI trovammo un articolo su Upsala; nelle prime del XLVII, uno su UraI-Altaic Languages; ma nemmeno una parola su Uqbar. Bioy, tra deluso e stupito, interrogò i tomi dell'indice; provò invano tutte le lezioni possibili: Ukbar, Ucbar, Ooqbar, Qokbar, Oukbahr... Prima di andarsene, mi disse che si trattava di una regione dell'Irak, o dell'Asia Minore. Confesso che assentii con un certo imbarazzo. Congetturai che quel paese non documentato, quell'eresiarca anonimo, fossero una finzione improvvisata dalla modestia di Bioy per giustificare una frase. L'esame, affatto sterile, d'uno degli atlanti di Justus Perthes, mi confermò in questo dubbio.”

“Debbo la scoperta di Uqbar alla congiunzione di uno specchio e di un'enciclopedia”

basta una riga.


E' la caricatura di un romanzo. Una parodia spettacolare quanto elementare, ridicola. Talmente smaccata che non se n’è accorto nessuno. Ma nessuno. Il solito re che passeggia nudo per le strade.
Più che un romanzo, un sogno. Nei sogni non esiste lo spazio e il tempo. Le cose cambiano forma, mutano i luoghi, repentinamente le persone manifestano altri corpi, distese erbose diventano piscine affollate, baffi cadono da facce, capelli crescono su piedi, squali sussurrano canzoni, lepri suggono cravatte.
Nei sogni vige la massima compressione. Il personaggio giunge al momento giusto, la battuta è sempre a tempo, la disgrazia non si fa attendere. Compressione e dilatazione al tempo stesso. La caduta non prevede fermate, il volo non conosce l’atterraggio, un passo copre distanze inaspettate. Nei sogni si affastellano nomi, numeri, simboli, maschere, porte, stanze, sessi, citazioni, dichiarazioni, ascensori, mostri, orgasmi.

Minime esigenze di dignità letteraria hanno imposto all’autore il divieto di far risvegliare la sua eroina al colmo dell’imbarazzo, al centro del gorgo. Il finale in sospensione, unica via d’uscita, non può che conferire tuttavia ulteriore, tragico peso al senso di vuoto che accompagna la lettura.

Ci imbattiamo in piccoli segnali, emozionati dalla prospettiva di un disegno.
Alziamo gli occhi e la forma di un oggetto, un colore, una parola stampata su un cartellone, o su un maglione, incredibilmente riempie un vuoto, risponde a una domanda, un quesito che ci girava in testa.
Osserviamo quanto sforzo fa l’essere umano per trovare un senso all’esistenza. il disperato bisogno di cercare qualcosa che abbia un senso. qualsiasi cosa.
anche nel momento più difficile, ci aggrappiamo a qualsiasi cosa, qualsiasi cosa può diventare un segno, incarnare un'attesa, riempirsi di significato.

Piccole risposte a piccole speranze.

martedì 8 marzo 2011

la destinazione

sapere dove andare.
mi piace osservare le persone che sanno dove andare.
in realtà non lo sanno, ma pensano di saperlo. il che non fa alcuna differenza.

una volta decisi di andare a bologna. persi il treno. ma volevo andare lo stesso. ero senza macchina. decisi di andare in moto.
era autunno, faceva freddo.
mi dissi io ci provo, se ho troppo freddo torno indietro.
partii verso le otto di sera.
il freddo si fece sentire presto. freddo e vento.
ci misi tre ore ad arrivare. il traguardo non arrivava mai.
dovetti fermarmi tre volte per scaldarmi nelle aree di servizio. parcheggiavo la moto ed entravo intirizzito negli autogrill, dove tante persone non avevano freddo, e ridevano e parlavano e compravano cose. e mi sembravano degli esseri superiori, loro che avevano la macchina, e potevano affrontare l’autostrada chiusi nell’abitacolo riscaldato. e io ero lì, con le mani che premevano la tazza di tè caldo, e i brividi, che pensavo che di lì e poco sarei ripartito, e mi mancavano ancora 150, 80, 70, 50 chilometri di freddo. e mentre guidavo cantavo nel casco, o urlavo, o straparlavo, o cercavo di non pensare a niente, o pensavo che all’arrivo sarei stato accolto da un abbraccio e da un bagno bollente, mentre il freddo mi schiacciava e mi spegneva. la notte stetti bene, fu una notte di febbri e perdite di coscienza.
il giorno dopo, alle sette del mattino, ripartii. mi ero fatto prestare una sciarpa e un paio di calzoni supplementari, ma non bastarono. dopo pochi chilometri fu di nuovo il freddo. feci tutto il viaggio di ritorno incollato ai camion, per sfruttare l’effetto scia e ripararmi. andavo a 80 all’ora. la sera avevo la febbre alta. di quell’esperienza mi ricordo di me stesso, che guardavo tutte quelle persone calde e mi sentivo minorato. anche io avevo la macchina, ma quel giorno no.
anche io avevo avuto, ma avevo perduto.

venerdì 11 febbraio 2011

fask and zen

Ieri sera sono stato a sentire un concerto. di giovani ragazzini rocchettari. sono andato per sentire i FASK (un acronimo). Questi FASK erano il cosiddetto “opening act” della serata, il preludio al piatto forte, che si chiama zen circus. Nei FASK suona il nipote di un mio caro amico, ed è per quello che ci sono andato. dico subito che sono stato contento di averli visti. Suonano bene, sono simpatici. Il cantante, che è il leader carismatico, ha i baffi, e ogni tanto imbraccia una SG. Il bassista, come quasi tutti i bassisti del mondo, fa il suo onesto lavoro nell’ombra. Il chitarrista suona la les paul classic. E’ timido (lo chiamano “orsetto”) ma riesce a tenere il palco con divertente rigidità. Il batterista fa la seconda voce. La musica è troppo moderna per le mie vecchie orecchie. Però mi sono piaciuti. Hanno discrete palle e voglia. E soprattutto non se la menano.

Finiti i FASK, sono arrivati gli zen circus.
questi zen circus sono in tre. chitarra, basso e batteria. sono gente all’apparenza allegra e con le idee chiare. Il bassista sembra anziano, ma forse li porta male. Il batterista è striminzito e minimalista ma pesta. il chitarrista, prima dell’esibizione, ha fatto portare sul palco sei chitarre, tutte di ottima qualità, mi pare quattro elettriche e due acustiche. ben due bravi roadies si sono succeduti quali accordatori per calibrare al meglio l’intonazione degli strumenti. purtroppo il chitarrista, che ha i capelli come i miei, non sa suonare. ma forse è un dettaglio inutile.
gli zen circus si sono fatti precedere (forse per simpatia con il locale che li ospitava – circolo ARCI - sebbene a me sia sembrata una introduzione consolidata) da una breve ma intensa antologia di dichiarazioni di esponenti della maggioranza, da calderoli a, naturalmente, berlusconi.
quindi, dopo un breve estratto dell’inno nazionale, hanno aperto.
Presto mi sono accorto con sgomento che buona parte del (folto) pubblico, la cui età media oscillava intorno ai 20, conosceva i testi delle canzoni. I testi sono in italiano. Dopo tre o quattro pezzi ho abbandonato la sala e sono andato a mangiare dal mcdonald.


nota
mentre uscivo mi sono ricordato di una cosa che vidi tanti anni fa: un’intervista a una ragazzina di liverpool che piangeva perché i beatles non avrebbero più suonato al cavern, perché nel frattempo erano diventati famosi, e là non avrebbero più potuto suonare. e lei era triste e diceva, loro sono nostri, appartengono a noi, ce li portano via, ma loro sono di qui, sono di liverpool, sono del cavern. lei andava al cavern tutte le sere, li aveva visti crescere, li aveva visti suonare besame mucho, sweet little sixteen, some other guy e le prime versioni di I saw her standing there e one after 909.
e allora mi sono reso conto, guarda un po’, che tutti i gruppi hanno i loro fan che li seguono dai primi passi. anche gli zen circus e i Fask. ma non so cosa significhi questa cosa.