"I palazzi di giustizia sono tradizionalmente prerogativa degli uomini, nel senso che le gerarchie che li governano, la cultura che li anima, i valori di cui sono custoditi ed i riti e i tempi che regolano la loro vita interiore sono storicamente frutto del comando maschile. Sorge allora la curiosità di scoprire se la via femminile sarà banalmente quella della omologazione al modello preesistente grazie ad una riconosciuta e talvolta invidiata capacità di fare molto, o se lo specifico <donna> saprà viaggiare verso modi e stili diversi, se non antagonisti, rispetto a quelli consolidati e polverosi." (Fulvio Gianaria e Alberto Mittone, L'avvocato necessario, Einaudi 2007, p. 98)
Ebbene, cerchiamo di rispondere alla domanda, omesso ogni commento sul solito tragico errore di stampa di einaudi (chi lo trova?).
La mia esperienza è ancora una volta nel segno della questione ontologica. Nella professione di avvocato la donna, non poteva essere diversamente, ha portato la propria ontologia.
Lo "specifico donna" di cui sopra dovrebbe essere quell'insieme di peculiarità della porzione femminile del mondo, ovvero ciò che contraddistingue l'universo donna: l'emozionalità, la delicatezza, la sensibilità, e anche il coraggio, lo spirito di sacrificio e di applicazione, il senso di giustizia (anche nella declinazione pratica della scarsa propensione al compromesso), la forza umana e nervosa, la generosità, il senso pratico.
Dobbiamo generalizzare, non v'è dubbio. Ma non per questo ci allontaneremo troppo dalla verità.
Dunque. L'avvocato donna è un personaggio molto pragmatico, cinico, determinato, scabro, intransigente, rigido. Poiché spesso sposa la causa del proprio assistito, diventa eccessivo, impulsivo, fazioso, aggressivo.
L'avvocato donna generalmente è privo di cultura, la cultura non essendo necessaria alla vittoria della causa e quindi alla soddisfazione del cliente.
Il peggiore avversario che si possa trovare sulla propria strada è un avvocato donna che difende una donna in una causa di separazione o divorzio.
Il che sarebbe buona cosa e anche un bel pungolo se la competitività femminile si dispiegasse nel certame dialettico e nel serrato confronto sull'interpretazione della norma, ma purtroppo amaramente si risolve in una questione di principio, ovvero in una guerra tra sessi, al di là delle ragioni, delle regole, della buona creanza.
Sono d'accordo con le post-femministe (alla Camille Paglia, per dirne una), le quali pensano e dicono che il femminismo ha perso, tra tante battaglie sacrosantamente vinte, quella più importante per le stesse donne: la possibilità di diventare amiche, di creare un sodalizio eterno tra se stesse. Di creare una reale alternativa al modello culturale maschile, fatto di forza, violenza, prevaricazione e sostituirlo con il suo contrario.
Anche per la mia professione vale quindi il solito discorso: imitazione di modelli deteriori (maschili) e attuazione di questi modelli in forme ancora peggiori.
Sia chiaro: conosco colleghe provviste non solo di intelletto fine e vasta cultura giuridica, ma anche di squisita umanità e profondo senso della funzione socialmente utile della professione.
Ma la mia esperienza personale, sotto il profilo squisitamente statistico, mi parla di una grande maggioranza di donne avare di emozioni e di cultura e determinate verso l'obiettivo.
Il che, per la professione, non penso sia un contributo di valore.
Mi si dirà è una questione di tempi: prima dobbiamo arrivare, e non possiamo farlo se non secondo le vostre regole; poi cambieremo queste regole.
E va bene, rispondo. Ma ora le donne magistrato e le donne avvocato sono tante quanti gli uomini.
E' ora.
(ma non succederà, vedrete, perché questo nostro mestiere non è compatibile che con il "lato oscuro della donna")