lunedì 25 giugno 2012

morto, e morto ancora


sei partito dal paese e hai lasciato tutto. per te era niente. era la povertà. non c’erano scarpe, non c’erano cure, non c’era tanto da mangiare.
sei andato a scavare sotto terra, all’inferno. respiravi la polvere, al buio, in una fornace, ogni giorno. giorni senza sole, senza cielo.

sei andato là, a trovare la morte, per permettere a me di vivere meglio.
di vivere una vita elettronica, tecnologica.
adesso con il mio coso posso parlare con l’america, mandare messaggi in australia e ricevere risposta in un secondo.
posso vivere una vita di aperitivi, ristoranti, automobili, oggetti, viaggi. la vita da bestia che hai fatto, tu con i tuoi compagni là sotto, è servita a noi per costruire case, strade, ospedali, tribunali. è servita a costruire macchine che hanno permesso di lavorare meglio, di morire meno, di vivere di più. queste macchine hanno salvato mani, polmoni, occhi. poi hanno costruito occhiali da sole, così le persone evitano di guardarsi in faccia; hanno costruito i tribunali, che consentono alle persone di farsi del male, grazie alla legge; hanno costruito gli ospedali, che obbligano i dottori ad aprire le pance; hanno costruito le case, che ci permettono di isolarci, di picchiarci, di andare in un ufficio a fare dei debiti per tutta una vita solo per averle, queste case.

se tu fossi ancora vivo ti direi, se potessi, che la tua morte ha pagato non solo i miei aperitivi, il mio benessere, ma anche qualcos’altro.
ha comprato il tuo paese, quei muretti bassi a secco, quella piazzetta assolata, quegli ulivi, quel ruscello, quelle chiacchiere fuori dal bar, quell’asinello, quel mulino. li ha comprati, e li ha distrutti.
e io non riesco a non pensare che il coso con cui scrivo queste parole toglie risorse da un’altra parte.

e allora, mentre mi scoppia la testa pensando alla tua morte, mentre ti piango e scrivo, so che mentre scrivo, ogni volta che scrivo, e proprio perché scrivo, io uccido qualcuno.

sei morto per me, essere umano sconosciuto, e io ti uccido un’altra volta

4 commenti:

Anonimo ha detto...

Caro Pim, non è ben chiaro quale sia la fonte della tua riflessione, però qualcosa va detto sul contenuto. Ci sono processi in cui la corresponsabilità nel dolo o nella colpa è evidente per illegalità del fatto, come cooperare per realizzare un omicidio. Altri processi dove la corresponsabilità è desumibile dalla linearità (eticamente demolitiva) di senso del proprio percorso, come accade quando si decide per lo scopo del denaro o di utilità materiali di ignorare le conseguenze più immediate di quel beneficio. E' il caso esemplare di coloro che lucrano in prestigiosi studi (legali o di consulenza), demolendo la propria ed altrui vita, chiusi per troppe ore a concentrarsi sul semplice risultato. Poi ci sono casi di responsabilità indiretta, dove si diventa corresponsabili per "abitudine", perché non si approfondisce il senso di un acquisto o di un'attività, magari sprecando risorse. Ecco, oltre però non andrei, perché è pur vero che una vita rigorosamente povera e fondata sull'autosussistenza potrebbe tagliare tutti questi problemi alla radice, ma è anche vero che non tutti sono chiamati a questa semplicità di risposte. Invece, cercare nell'essenziale di contribuire a dare un senso (costruttivo) a ciò che si fa, nella complessità del mondo, può fondare cooperazioni produttive, e dare beneficio a molti, eliminando vizi, anziché fomentarli.

Paolo

Anonimo ha detto...

...Diego Durán afferma che gli Aztechi "restavano indifferenti o facevano commenti sarcastici" quando gli spagnoli ne criticavano fortemente la tradizione. Nel suo Libro de Dioses y Ritos alcuni Nahua presero in giro la sensibilità dei cristiani. Chiesero invece agli spagnoli di applaudire:
« Il sacrificio delle vite umane […], l'onorata offerta di grandi signori e nobili. Essi ricordano queste cose parlando di loro come se si fosse trattato di grossi cervi »

http://it.wikipedia.org/wiki/Sacrifici_umani_nella_cultura_azteca

dmncs

W.B. ha detto...

Doppiovubi condivide le lacrime di Pim e non aggiunge altro, perché altro non si può aggiungere.
In casa sua, poi, Doppiovubi parlerà - non potrà non parlare - delle congiunzioni avversative, quali parti del discorso che - lungi dal "fondare cooperazioni produttive" (absit i.v.) -, dividono gli esseri umani e spesso bruciano irrimediabilmente, poco a poco, le relazioni.
W.B.

Anonimo ha detto...

Doppiovubi, se la sintassi e la retorica nei periodi della lingua italiana finisse per sostituirsi al tema sollevato sarebbe un disastro, posto che le prime sono solo una frazione logica del secondo. Così come versare lacrime non è detto sia sempre atto di compassione giusto e vero. Non che mi riferisca al caso concreto, che davvero non ho capito. Il discorso è da volgere verso la responsabilità effettiva della persona, e quando ha da dolersene, in rapporto a ciò che avviene al di fuori della propria sfera di influenza. Su questo tema mi piacerebbe si esprimesse la pregiata penna di Doppiovubi.

Paolo