ogni volta che scrivo su un argomento che non sia il tennis
o i Beatles vengo aggredito da un sentimento di insopportabile inadeguatezza.
tale sentimento, una morsa intorno al collo, mi accompagna peraltro in ogni
istante della mia vita, e mi lascia respirare troppo poco perché possa pensare
di affrontare in modo degno temi qualsivoglia.
nell'asfissia, nell'afasia che mi costringe, tento di
approcciare una nuvola.
prima ero su youtube e ascoltavo alcune isolated tracks di
alcune canzoni dei Beatles e mi è successo di pensare che anche se ho letto
quasi tutto quello che è possibile leggere, anche se so come e quando quella
data canzone fu composta, quanti take ci vollero, quante sessioni, a quale ora
cominciò la registrazione, quanto durò, come venne mixata, chi era l’ingegnere
ad Abbey Road quel giorno, chi suonava cosa, anche se so tutte queste cose, non
so come stava il cantante, cosa aveva bevuto, cosa aveva mangiato, non so che
tempo faceva fuori, se piovve prima o dopo o durante, non so se telefonò
qualcuno, se ci furono discussioni, non so come si sentiva, se era triste, se
era allegro, non so come si sentiva, non so che cosa provava, che cosa
significava per lui registrare quel giorno quella canzone, se era soddisfatto,
se non lo era, se non ci pensava nemmeno e aveva la testa tra le nuvole, non so
nulla di tutto questo.
mentre è questo quello che conta, come ti senti in un dato
momento.
perché io lo so come mi sentivo quando sentii per la prima
volta I want to hold your hand (e la cosa stupefacente di questa canzone è che
quasi tutti si ricordano dov'erano e cosa facevano quando la ascoltarono la
prima volta, come quando si partecipa a una catastrofe, perché I want to hold
your hand è un pezzo che contiene in sé qualcosa di trascendentale, di
ineffabile, non catturabile, non è solo l’eterodossia del si maggiore dopo il
mi, c’è qualcos'altro - ed è di questo che sto parlando - una canzone che non è
nemmeno facilmente cantabile, sono più cantabili di sicuro le simpatiche e
massoniche arie di Papageno, e a questo proposito mi preme assolutamente dire
che qualunque pezzo di Giovanni Allevi è
più bello di qualunque cosa scritta da Schöenberg, o da
Stockhausen, o da Berio, o da Nono, o da Boulez, perché sono per la fondazione
di un nuovo futurismo), so come mi sentivo quando sentii Sade che cantava It’s
paradise, so come mi sentivo.
questa, come tutti sanno, è la caratteristica straordinaria delle opere d’arte (anche di quelle brutte, purtroppo), che ci
sono milioni di persone che associano un’emozione a un momento della loro vita,
quando di quella opera d’arte hanno fruito, mentre l’artista no. ogni giorno milioni
di persone si cambiano sms e mail e faccine e con esse testi di
canzoni, video di canzoni, musica di canzoni. ogni minuto le vite di milioni di
persone sono trascinate, guidate, salvate, forse distrutte dall'opera d’arte.
ho la tosse. mi si chiude il naso.
la cosa meravigliosa e allo stesso tempo spaventosa
dell’arte è il sentimento di proprietà che instilla nell'animo di ognuno.
sì, è la vecchia storia dell’opera d’arte che appena nata si
stacca dal suo autore e vive di vita propria. vecchia ma non per questo meno
vera.
le opere d’arte appartengono alle persone, non agli autori. l’opera
d’arte è schiava, schiava di tutti, ognuno ha la sua, ognuno possiede la
canzone, la possiede e ne è proprietario. non si sente come proprio nulla come
si sente la proprietà e il possesso dell’opera d’arte.
il diritto distingue l’una e l’altra cosa, il sentimento no.
come il bambino, non fa differenze.
sento la proprietà di un comodino perché l’ho comperato, ho
speso del denaro e me lo sono portato a casa, me lo guardo e me lo lustro. ma è
un sentimento di appartenenza che deriva da un fatto barbaro, ovvero dalla
corresponsione di un prezzo verso la consegna di un bene, ciò che è la
cosiddetta causa del contratto, lo schema negoziale astratto sussunto
dall'ordinamento positivo come meritevole di tutela. che è cosa diversa dal
sentire. infatti il comodino non è mio per sempre. può rompersi, posso
venderlo, posso donarlo per spirito di liberalità, posso permutarlo. al momento
del mio distacco da esso, potrò forse avere qualche piccolo rimpianto, forse
una piccola, tiepida lacrima potrà solcare la mia guancia, ma una volta che se
n’è andato, se n’è andato.
invece l’opera no. non mi abbandona mai. è mia per sempre.
il legame sentimentale che ho con essa potrà subire qualche affievolimento,
come tutti i legami, ma l’opera, la mia opera, morirà con me. quando sarò
sdraiato nel mio letto di dolore mi torneranno nelle orecchie quelle note,
negli occhi quelle immagini.
mi manca l’aria.
alcuni hanno congetturato, e poi approfondito, il legame tra
matematica e musica.
matematica nella musica. matematica della musica.
ma tutto è matematica. sono matematica le onde del mare,
matematica il giorno e la notte, matematica le foglie.
c’è tuttavia qualcosa che la matematica non riesce a
carpire. ed è, appunto, il mistero generato da una sequenza di note.
una sequenza di numeri può provocare stupefazione, può
meravigliare o stordire la verifica puntuale di una regola. ma la scoperta di
una legge universale è per gli scienziati. il successo di una vita di ricerche,
di ampolle e di infinite notti a provare combinazioni. è, certamente sì,
anch'esso brivido lungo la schiena. ma è altra cosa.
è altra cosa rispetto al mistero contenuto nel si bemolle, e
alla differenza tra esso e il re. e alla infinita serie di variazioni sullo
stesso re, ognuna delle quali ha un suo sapore, un suo colore. e la domanda è:
perché un’armonia in tono minore che si chiude in maggiore ispira ottimismo e
compiutezza, mentre un finale in minore ci colma di melanconia?
io non ho studiato antropologia. ho studiato solo qualche
libro di diritto. io non so come avrebbe reagito un abitante di un villaggio
del centrafrica nel 1824 ascoltando l’ultimo movimento della nona. se si sarebbe
messo le mani sulle orecchie. davvero la voce di Caruso che squarciava fiumi e
alberi dal grammofono di Fitzcarraldo era sentita dagli indios come da lui?
poco sangue, poco ossigeno ancora.
non è affare mio, l’argomento. che ne so io, del movimento armonico?
di che cosa sto parlando? non so nemmeno leggere il pentagramma e sputo a destra e
a manca sulle barbe di grandi uomini. io non sono Galileo. sono nella caverna,
ed è già tanto se riesco a trovare qualcosa da mangiare.
le braccia mi si allungano lungo il corpo. vado a scrivere
una comparsa conclusionale.
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