una roba da film italiano, di quelli con mastroianni
le ho già scritte tutte, queste cose. e pazienza.
c’era Edoardo, che scriveva da dio, e che fu bocciato per due volte, e dovette mollare il ginnasio, ed era l’unico che avrebbe dovuto esserci, lì, era l’unico che sapeva scrivere, cazzo come scriveva. era un genio. e fu bocciato. chissà dov’è ora. non scrive libri, ed è un peccato.
c’era Armando, tanti anni prima, che era figlio di genitori anziani, e terroni, e lo prendevano tutti per il culo perché era bruttino e sfigato, e non giocava a pallone come gli altri e non mangiava con gli altri, e si vestiva strano, più strano degli altri. e piangeva, ogni tanto.
c’era Piero, che aveva un papà che lo portava in piscina, e lo faceva giocare a tennis, e ogni giorno gli dava la vita che avevano tutti gli altri, anche se lui non era come gli altri. c’era Piero che una sera d’estate si mise a suonare l’armonica a bocca, nel silenzio del giardino, fuori dalla finestra, e lo sentii cantare maledetta primavera, con la sua voce sgangherata, bavosa, impastata, e il suono di quelle note storte, tutte fuori posto, e le parole sbagliate e fuori tempo, e lui però era felice di cantare, per se stesso e per gli altri, e di suonare la sua canzone con l’armonica, e io sentivo il mio cuore battere male, era un’emozione troppo forte e mi veniva da piangere e non ci riuscivo, mentre lo guardavo di nascosto, tra i rami del glicine del mio balcone. e ancora adesso, maledetta primavera.
c’era Riccardo, con cui scrivevamo i nostri racconti a quattro mani, che si arrabbiava spesso, che aveva il senso del giusto, del bello e del vero, c’era Riccardo tante volte, tanti giorni, tante parole, tante immagini. Riccardo che c’è ancora e per sempre, in una vecchia videocassetta, mentre ride con me e con Massimiliano.
c’era Alberto, che aveva i maglioni lisi sui gomiti, che rideva col naso perché non voleva farsi beccare dai professori, lui che era al primo banco con me. ci volevamo bene, io e Alberto, ma non eravamo amici, troppo distanti. ci volevamo bene senza dircelo, non eravamo capaci. non ce l’ha fatta, anche per lui troppo dolore, e tanta incomprensione intorno a lui. sarebbe bastato poco, come sempre.
c'era Marco, che era talmente grande che ti sentivi in colpa tu per essere sano, e scriveva poesie, e aiutava tutti, e non faceva male a nessuno, mentre molti lo facevano a lui. c'è, sicuramente, ed è ancora grande.
c'era, c'è Francesco, che è incapace di fare il male, un angelo semplice, un cuore pulito, un'altra vita iniziata dentro una vita. un esempio.
c'era...
venerdì 11 marzo 2011
c'era
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mercoledì 9 marzo 2011
l'inganno del lotto 49
“You are a liar! You are an impostor. You are a deserter. I suspected you this morning, and your lies and folly have confirmed this to me. You pretend to carry dispatches to a British general who has been dead these ten months. You say your uncle is the British Ambassador in Berlin, with the ridiculous name of O'Grady.” (Stanley Kubrick, Barry Lyndon)
People said we couldn't play
The called us foul-mothed yobs
But the only notes that really count
Are the ones that come in wads
They all drowned when the air turned blue
'cos we didn't give a toss
Filthy lucre, ain't nothing new
But we all get cash from the chaos
The time is right to do it now
The greatest rock'n'roll swindle
The time is right to do it now
E.m.i. said you're out of hand
And they gave us the boot
But they couldn't sack us, just like that
Without giving us the loot
Thank you kindly a & m
They said we were out of bounds
But that ain't bad for two weeks work
And 75,000 pounds
The time is right to do it now
The greatest rock'n'roll swindle
(Sex Pistols, The great rock’n’roll swindle)
Improvvisamente, mi ha detto lei, sono tornati sugli scaffali delle librerie tutti i libri di Thomas Pynchon.
Mai letta una riga, mi son detto mi tuffo.
Ero a Catania. Non potevo aspettare, un po’ per bramosia di leggere le prime pagine del Genio, un po’ per paura che scomparissero di nuovo. Vado alla Feltrinelli di via Etnea, dove, come da informazioni assunte via internet, sapevo di trovare una certa disponibilità (una copia per ogni libro). Mi presento alla simpatica impiegata, alla quale do indicazioni precise. Naturalmente non trova nulla, perché scrive il cognome dell’autore con la i e non con la y. Il terreno culturale dell’impiegato medio di una libreria Feltrinelli comprende un’area che più o meno va da Che Guevara a Madre Teresa. Poco male. Ci sono tutti. Ne scelgo due: l’incanto del lotto 49 e l’arcobaleno della gravità. Se mi piace come scrive, domani torno e porto a casa il resto.
L’incanto del lotto 49 è il più famoso di tutti, e anche il più breve. è il libro che, unanimemente, ha consacrato Pynchon il più grande scrittore americano degli ultimi 50 anni. il maestro della letteratura postmoderna (un termine che trovo alquanto postmoderno). scelgo lui, per cominciare la mia immersione nel Sublime.
Ho letto le prime pagine e sono rimasto un po’ stranito. Forse non sono nella giusta disposizione d’animo, mi son detto. Forse non sono concentrato abbastanza, sono distratto. Ho ricominciato. Due, tre volte. sono andato avanti. 50, 70, 90 pagine. Mi sono posto il problema della traduzione, sai mai che Massimo Bocchiola sia stato a lungo interessato da fastidiose coliche intestinali. Brevi ricerche hanno smentito l’ipotesi (sebbene il titolo italiano sia furbetto, perché non molti, fuori dalle aule di giustizia, e anche dentro, utilizzano la parola "incanto" per dire "asta", anche alla luce del fatto che l'"incanto", in originale, è un "pianto"). Insomma, alla fine, il verdetto era, tristemente, sotto i miei occhi.
L’incanto del lotto 49 è una cagata pazzesca. Non saprei come altro definirlo. Ma ci provo.
Prima di tutto è scritto veramente male. Poi potremmo dire che, già forse proprio per questo, e anche per la sovrabbondanza di citazioni storiche e letterarie completamente fine a se stesse e per un profluvio di rimandi a guerre, personaggi, miti senza alcun costrutto, è la più grande truffa letteraria del secolo (scorso). La più grande beffa, il più clamoroso esempio di presa in giro delle masse, dei parrucconi, degli editori, degli intellettuali e dei lettori tutti da parte di un autore. altro che cimitero di Plaga. Umberto E. ha ancora molto da imparare. In ogni caso, T.P. è un genio.
Fare mostra di sapere cosa sia un in-folio o un in-quarto non significa aver compreso shakespeare. Più che altro, a me il libro ha ricordato le gesta erotiche di squaw pelle di luna, o l’ira funesta dei profughi afgani che dal confine si spostarono nell’iran.
Ma la cosa amareggiante è che l’autore crede di saper scrivere. le ultime pagine sono quelle più preziose, quelle in cui si è spremuto l’olio sacro, in cui il nostro ha sputato sangue, ha barcollato, corretto, scritto, riscritto, appallottolato, strappato, letto, riletto e riletto.
e viene fuori questa cosa qui.
"Cosa restava da ereditare? Quell’America cifrata nel testamento di Inverarity, a chi apparteneva? Pensò ad altri vagoni merci, immobilizzati, dove i bambini sedevano sulle assi del pavimento a cantare come topi nel formaggio tutta la musica che usciva dalla radiolina della madre; ad altri abusivi che stendevano i teli delle loro capanne dietro sorridenti cartelloni lungo tutte le autostrade o dormivano nei cimiteri delle automobili, negli abitacoli denudati di Plymouth incidentate; o addirittura, arditi, passavano la notte come bruchi in cima ai pali, nelle tende dei guardafili, dondolando tra una rete di fili telefonici, proprio all’interno delle sartie di rame e del miracolo laico della comunicazione, impassibili ai muti voltaggi che guizzavano per i chilometri della loro estensione, tutta la notte, nelle migliaia di messaggi non uditi"
e che dire di questa fine e profonda analisi psicologica dell’eroina del libro?
"Mi stanno spogliando, disse mentalmente Oedipa – sentendosi una tenda in un’altissima finestra, che fluttua in su verso, e poi in fuori sopra, l’abisso – a uno a uno mi stanno spogliando dei miei uomini. Il mio analista, con gli israeliani alle calcagna, è impazzito; mio marito, dedito all’LSD, brancola come un bambino sempre più addentro a una fuga infinita di stanze nell’elaborata casa di zucchero del suo io e lontano, disperatamente lontano, da quello che sembrava, io speravo per sempre, amore; il mio unico amante extraconiugale si è dato alla fuga con una quindicenne depravata; la mia migliore guida per risalire al Tristero si è annegata. E io dove sono?"
e ancora
"I mal di denti si aggravarono, sognò voci disincarnate di una malignità senza scampo, il morbido crepuscolo degli specchi da cui era lì lì per uscire qualcosa, e stanze vuote in attesa di lei. Un normale ginecologo non aveva test appropriati per ciò di cui era gravida."
oppure
“L’attraversò portando il suo libro voluminoso, attratta, titubante, estranea, desiderosa di sentirsi importante ma consapevole di quanta ricerca fra universi alternativi sarebbe stata necessaria: poiché lei aveva studiato in un’epoca di nevrastenia, blanda moderazione e ripiegamento non solo tra i suoi condiscepoli, ma anche in gran parte della struttura visibile attorno e innanzi a loro, essendo ciò un riflesso nazionale a certe patologie nelle alte sfere che solo la morte aveva potuto curare, e questa Berkeley non era affatto la sonnolenta Siwash del suo passato, ma più affine a quelle università dell’Estremo Oriente o dell’America Latina di cui si legge, veicoli di cultura autonoma dove si possono mettere in discussione i folklori più amati, cataclismiche di conclamate contestazioni, suicidarie d’impegni scelti e assunti - di quelle che abbattono i governi”.
(tutti i passi sono tratti dalla edizione einaudi stile libero 2005)
La struttura c'è, ma la storia non esiste; la forma è modesta, ma in compenso i personaggi sono bellissimi e simpaticissimi. di uno spessore antropologico e psicologico pari a un dipresso a un centesimo di una qualsiasi figura minore dei Simpson.
Accanto a Oedipa Maas, la protagonista indiscussa, c'è per esempio lo psichiatra folle, che si chiama Dottor Hilarius, c’è Mike Fallopian, che fa propaganda per la Peter Penguid Society, c’è un’opera teatrale, centrale nel romanzo, che si chiama La tragedia del Corriere, che narra le vicissitudini del ducato di Squamuglia e del confinante Faggio, c’è il regista, Randolph Driblette, che rivela l’esistenza di un frammento importantissimo; c’è Stanley Koteks, della società Yoyodine, c’è John Nefastis, inventore della Macchina Nefastis, costruita sul modello del celebre Diavoletto di Maxwell, che spiega le relazioni tra la termodinamica e il flusso delle informazioni; c’è Gengis Cohen, il più eminente filatelico di Los Angeles, che introduce l’eroina del libro nel mondo dei francobolli della Thurn und Taxis, il sistema postale sedizioso e misterioso, alternativo a quello nazionale, che condurrà al mistero di Tristero; ci sono Manny Di Presso, una sorta di avvocato-attore, e Anthony Giunghierrace, detto Tony Jaguar, che sanno tutto su un mercato occulto di ossa di cadaveri italiani della seconda guerra mondiale; c’è Emory Bortz, professore di letteratura, che rivela l’esistenza di una copia “pornografica” della Tragedia del Corriere conservata presso gli archivi vaticani.
Che cosa posso dire? se c’è chi si straccia le vesti perché ancora non hanno affibbiato il Nobel a Cormac McCarthy, ci può pure stare chi glorifica T. Pynchon.
Per me, forse perché faccio un altro mestiere, la letteratura è un’altra cosa.
per esempio, questo, è uno scrittore.
“Debbo la scoperta di Uqbar alla congiunzione di uno specchio e di un'enciclopedia. Lo specchio inquietava il fondo d'un corridoio in una villa di via Gaona, a Ramos Mejìa; l'enciclopedia s'intitola ingannevolmente The Anglo-American Cyclopaedia (New York 1917), ed è una ristampa non meno letterale che noiosa dell'Encyclopaedia Britannica del 1902. Il fatto accadde un cinque anni fa. Bioy Casares, che quella sera aveva cenato da noi, stava parlando d'un suo progetto di romanzo in prima persona, in cui il narratore, omettendo o deformando alcuni fatti, sarebbe incorso in varie contraddizioni, che avrebbero permesso ad alcuni lettori - a pochissimi lettori - di indovinare una realtà atroce o banale. Dal fondo remoto del corridoio lo specchio ci spiava. Scoprimmo (a notte alta questa scoperta è inevitabile) che gli specchi hanno qualcosa di mostruoso. Bioy Casares ricordò allora che uno degli eresiarchi di Uqbar aveva giudicato che gli specchi e la copula sono abominevoli, poiché moltiplicano il numero degli uomini. Interrogato sull'origine di questo detto memorabile, rispose che The Anglo-American Cyclopaedia lo registrava nell'articolo su Uqbar. Nella villa (che avevamo presa in affitto ammobiliata) c'era un esemplare di quest'opera. Nelle ultime pagine del volume XLVI trovammo un articolo su Upsala; nelle prime del XLVII, uno su UraI-Altaic Languages; ma nemmeno una parola su Uqbar. Bioy, tra deluso e stupito, interrogò i tomi dell'indice; provò invano tutte le lezioni possibili: Ukbar, Ucbar, Ooqbar, Qokbar, Oukbahr... Prima di andarsene, mi disse che si trattava di una regione dell'Irak, o dell'Asia Minore. Confesso che assentii con un certo imbarazzo. Congetturai che quel paese non documentato, quell'eresiarca anonimo, fossero una finzione improvvisata dalla modestia di Bioy per giustificare una frase. L'esame, affatto sterile, d'uno degli atlanti di Justus Perthes, mi confermò in questo dubbio.”
“Debbo la scoperta di Uqbar alla congiunzione di uno specchio e di un'enciclopedia”
basta una riga.
E' la caricatura di un romanzo. Una parodia spettacolare quanto elementare, ridicola. Talmente smaccata che non se n’è accorto nessuno. Ma nessuno. Il solito re che passeggia nudo per le strade.
Più che un romanzo, un sogno. Nei sogni non esiste lo spazio e il tempo. Le cose cambiano forma, mutano i luoghi, repentinamente le persone manifestano altri corpi, distese erbose diventano piscine affollate, baffi cadono da facce, capelli crescono su piedi, squali sussurrano canzoni, lepri suggono cravatte.
Nei sogni vige la massima compressione. Il personaggio giunge al momento giusto, la battuta è sempre a tempo, la disgrazia non si fa attendere. Compressione e dilatazione al tempo stesso. La caduta non prevede fermate, il volo non conosce l’atterraggio, un passo copre distanze inaspettate. Nei sogni si affastellano nomi, numeri, simboli, maschere, porte, stanze, sessi, citazioni, dichiarazioni, ascensori, mostri, orgasmi.
Minime esigenze di dignità letteraria hanno imposto all’autore il divieto di far risvegliare la sua eroina al colmo dell’imbarazzo, al centro del gorgo. Il finale in sospensione, unica via d’uscita, non può che conferire tuttavia ulteriore, tragico peso al senso di vuoto che accompagna la lettura.
Ci imbattiamo in piccoli segnali, emozionati dalla prospettiva di un disegno.
Alziamo gli occhi e la forma di un oggetto, un colore, una parola stampata su un cartellone, o su un maglione, incredibilmente riempie un vuoto, risponde a una domanda, un quesito che ci girava in testa.
Osserviamo quanto sforzo fa l’essere umano per trovare un senso all’esistenza. il disperato bisogno di cercare qualcosa che abbia un senso. qualsiasi cosa.
anche nel momento più difficile, ci aggrappiamo a qualsiasi cosa, qualsiasi cosa può diventare un segno, incarnare un'attesa, riempirsi di significato.
Piccole risposte a piccole speranze.
scoreggiato da pim alle ore 18:15 3 commenti
Etichette: letteratura
martedì 8 marzo 2011
la destinazione
sapere dove andare.
mi piace osservare le persone che sanno dove andare.
in realtà non lo sanno, ma pensano di saperlo. il che non fa alcuna differenza.
una volta decisi di andare a bologna. persi il treno. ma volevo andare lo stesso. ero senza macchina. decisi di andare in moto.
era autunno, faceva freddo.
mi dissi io ci provo, se ho troppo freddo torno indietro.
partii verso le otto di sera.
il freddo si fece sentire presto. freddo e vento.
ci misi tre ore ad arrivare. il traguardo non arrivava mai.
dovetti fermarmi tre volte per scaldarmi nelle aree di servizio. parcheggiavo la moto ed entravo intirizzito negli autogrill, dove tante persone non avevano freddo, e ridevano e parlavano e compravano cose. e mi sembravano degli esseri superiori, loro che avevano la macchina, e potevano affrontare l’autostrada chiusi nell’abitacolo riscaldato. e io ero lì, con le mani che premevano la tazza di tè caldo, e i brividi, che pensavo che di lì e poco sarei ripartito, e mi mancavano ancora 150, 80, 70, 50 chilometri di freddo. e mentre guidavo cantavo nel casco, o urlavo, o straparlavo, o cercavo di non pensare a niente, o pensavo che all’arrivo sarei stato accolto da un abbraccio e da un bagno bollente, mentre il freddo mi schiacciava e mi spegneva. la notte stetti bene, fu una notte di febbri e perdite di coscienza.
il giorno dopo, alle sette del mattino, ripartii. mi ero fatto prestare una sciarpa e un paio di calzoni supplementari, ma non bastarono. dopo pochi chilometri fu di nuovo il freddo. feci tutto il viaggio di ritorno incollato ai camion, per sfruttare l’effetto scia e ripararmi. andavo a 80 all’ora. la sera avevo la febbre alta. di quell’esperienza mi ricordo di me stesso, che guardavo tutte quelle persone calde e mi sentivo minorato. anche io avevo la macchina, ma quel giorno no.
anche io avevo avuto, ma avevo perduto.
scoreggiato da pim alle ore 16:42 0 commenti