domenica 18 maggio 2014

grido al capolavoro

mentre son lì che mi interrogo su artista e creazione, mi arriva un 747 sulla faccia.

The words, di Brian Klugman e Lee Sternthal, anche sceneggiatori.

uno scrittore scrive di uno scrittore che scrive di uno scrittore. metacinema. metatesto, intertesto. sono categorie nate dopo. l'intertestualità è sempre esistita.
cinema che non finisce mai, come le filastrocche che ricominciano dalla fine, in loop, ultimi cascami della tradizione orale.
non è una critica alla ricerca del consenso, né una risposta alla domanda se l'arte sia figlia del dolore, né un'ulteriore sentenza sull'incomunicabilità tra gli esseri umani.

Bradley Cooper, che è anche produttore esecutivo, non è purtroppo all'altezza del ruolo. lo è Jeremy Irons, emozionante, e lo è, inaspettatamente, anche Dennis Quaid, che ci guarda nell'ultimo fotogramma del film.

non esiste romanzo che non sia tanti romanzi. non esiste vita che non sia tante vite. Borges, che non era decostruzionista, ha costruito tutta la sua letteratura su questo. un libro che è tutti i libri. un racconto che contiene tutti i racconti, come le mille e una notte.

quando lessi per la prima volta Ubik, capolavoro di P.K. Dick, la mia mente restò imprigionata dalla frase che Joe Chip, il protagonista, trova scritta nel bagno: "voi siete tutti morti. io sono vivo". Anni dopo scoprii che questa stessa frase aveva sconvolto la vita di uno scrittore francese, Emmanuel Carrère, che usò la frase come titolo di un saggio su Dick. Lo scoprii leggendo un altro libro di Carrère (che racconta uno spaventoso fatto di cronaca) dopo aver visto il film da cui era tratto il libro. Il film  mi aveva  turbato profondissimamente. Prima del film non conoscevo né Carrère né il suo libro. le ossessioni si ripetono, si tramandano. le sue ossessioni erano le mie.

quando avevo 15 anni c'era un professore di religione, un certo professor airoldi, o ajroldi, con il quale litigavo sempre. lui quelli che non capivano le sue lezioni li chiamava "mongoli", ma non nel senso della mongolia. per me era fuori di testa e cattivo. durante le lezioni di religione a scuola, chiunque fosse il professore, alla fine saltava sempre fuori la domanda sul senso della vita, e io mi incazzavo.
qualche anno fa pensavo che il senso della vita fosse quello di migliorarsi come esseri umani. oggi penso che questa cosa del migliorarsi sia assolutamente ridicola. non che non vada perseguita: vivere nelle proprie feci è peggio che farsi la doccia tutte le mattine. le disequazioni e la poesia ci pongono su un più alto gradino rispetto all'orango. sono d'accordo. ognuno fa il suo, nel gioco dell'esistenza.

qualsiasi forma di vita vuole vivere. il batterio tende a riprodursi. la vita eterna, come ha acutamente osservato DOM, non è il girotondo con le lenzuola, ma è la vita per la vita. così l'arte vuole vivere, e tende a riprodursi. non esiste senso altro che la riproduzione, di noi stessi, delle nostre vite, delle nostre parole, del dolore che è in esse, delle nostre opere, delle nostre speranze, dei nostri fotogrammi.
quando leggiamo del dolore, accettiamo di conservarlo e di tramandarlo insieme con quelle parole.

dicono che la sceneggiatura del film somigli molto, moltissimo, a un romanzo di uno scrittore svizzero, pubblicato nel 2004, otto anni prima del film. gli autori dissero di non conoscere il romanzo e dimostrarono di aver scritto la sceneggiatura nel 2000. è verosimile pensare che gli sceneggiatori e il romanziere non si siano mai incontrati e che abbiano scritto la stessa storia.

domenica 11 maggio 2014

adesso lo dico

deve essere successo qualcosa, ma non so se voglio saperlo. direi che non voglio saperlo. tanto nella mia vita la cosa incide, credo, assai poco. è che non posso guardare la sigla di chiusura delle trasmissioni della rai, quella con le onde e il simbolo della tv. anche adesso mentre scrivo mi tremano le mani al solo pensiero. non riesco ad ascoltare quella musica. mi fa star male. deve essere successo qualcosa, ma non voglio saperlo. magari qualcosa di non molto importante, non credo di essere stato picchiato o violentato, non credo di aver visto qualcosa di terribile mentre c'era la maledetta sigla. magari ho solo visto i miei che facevano l'amore e son rimasto traumatizzato. magari li ho sentiti o visti litigare. magari sono stato sgridato da mio padre per qualche motivo. chissà cosa è successo. qualcosa è successo. in ogni caso, non sono diventato né un violento né un violentatore e ho avuto finora una normalissima vita sessuale. la sigla non la trasmettono più da tanti anni, al massimo ci incappi durante qualche trasmissione sulla storia della rai. e lì basta cambiare canale. credo che mi porterò il fardello nella tomba.

di conflitti, favole e chiese

il conflitto tra l'artista e la sua creazione, che informa di sé qualsiasi tentativo di approcciare temi alti, resta l'unico conflitto sul quale è ancora opportuno, forse, spaccarsi la testa.
anche Dio è in lotta perenne con l'Uomo. si fa fatica a capirsi, e il genitore tende a interpretare il genitore, di quando in quando.
uccidere le proprie creature non appena esse vengono alla luce è, peraltro, propensione antica quanto il Tempo, come sappiamo.
e una volta nate persiste, non solo nelle menti più malate, quel sottilissimo, gelido sentimento di proprietà.
alcuni si affidano alle fiamme, altri si limitano al nascondimento; altri, ancora più vili di questi ultimi, lasciano l'ingrato compito agli esecutori testamentari; altri ancora invece non riescono a fermarsi, troppo ubriacante il piacere della terracotta che continua a modellarsi sotto le mani.
si parva licet, il più crudele crimine inflitto a un'opera d'arte dal suo autore nella storia del genere umano, ad oggi, è, senza dubbio, dovendo noi parlare di ciò che, nato, è riuscito a sopravvivere, l'atroce, abominevole delitto perpetrato ai danni della cosiddetta "saga" di Guerre Stellari dal signor George Lucas.
poche opere come la prima trilogia appartengono al patrimonio collettivo del pianeta. c'è, sì, una consistente parte di mondo che ne ignora l'esistenza, ma è quella parte di mondo che non ha nemmeno da mangiare.
tutti, puristi compresi, si aspettavano grandi cose da Episodio I. poi compare Jar Jar Binks. la figura più detestata della storia, seconda forse solo all'ineffabile Yoko. nonostante gli insulti,  il demiurgo non si ferma. dopo la seconda trilogia rigira, rimonta, riplasma parte della prima, commettendo un sacrilegio dopo l'altro (il più clamoroso dei quali, ovviamente, piazzare l'ologramma di Hayden Christensen al posto di quello di Sebastian Shaw al termine di episodio VI).
il risultato è stato l'emergere di siti internet, petizioni popolari, manifestazioni di piazza, proclami, tutti volti alla restaurazione dell'opera nella edizione originale, ormai introvabile. niente da fare. bisogna rassegnarsi, o rivolgersi a qualche nerd. non esiste nessun'altra opera d'arte che possa vantare articoli, testimonianze, discussioni, diatribe come guerre stellari. è il furto più clamoroso della storia di un autore al suo pubblico.

il fatto è piccolo, va bene, ma involge aspetti disparati, e non tutti altrettanto piccoli.
dal punto di vista diciamo antropologico, il problema non c'è. qualsiasi cosa è uguale a qualsiasi cosa. se Leopardi, preso da chissà quale demone, avesse per esempio riscritto L'infinito prima dell'edizione napoletana aggiungendo a fine poesia le parole "di milk shake", come avrebbe fatto più tardi l'indimenticabile Clizia Gurrado, quella sarebbe L'infinito di Leopardi, e vai a dirgli che era meglio prima. il punto è che per chi guarda dall'alto non è né meglio né peggio.
dal punto di vista giuridico, la questione è semplice. il diritto d'autore comprende, tra i suoi vari diritti, anche il diritto all'elaborazione dell'opera. l'opera è, per il diritto, sempre del suo autore, oppure di colui al quale l'autore ha ceduto il diritto. non mai del pubblico.
cattivo, come sempre, il diritto.
ma, a monte, è "giusto" che esista il diritto d'autore?
la regina Anna (ne fa un ritratto assai manierato il buon Victor Hugo) si prese la briga di legiferare per prima, in maniera organica, sull'argomento. era da poco stata firmata l'Unione. da lì in poi, un susseguirsi come si dice di interventi. ma l'invenzione della stampa era, a tacer dei cinesi, già vecchia di due secoli e mezzo. non c'era questo sentire impellente di tutelar l'autore. né c'era mai stato prima, anzi. e allora perché?
la domanda è gustosa (non saprei trovare altro aggettivo) soprattutto oggi, nel momento in cui  il diritto d'autore prende botte a destra e sinistra.
e allora io dico: sono per una radicale rivisitazione del diritto d'autore. radicale. rivisitazione.
resta il punto di vista del sentimento di appartenenza, di cui ho già detto qualche tempo fa. e qui non c'è niente da fare.
fate quello che volete, Guerre Stellari è Star Wars 1977. punto.
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per conoscere un popolo bisogna conoscerne le tradizioni.
come i tedeschi, che prima di specializzarsi nell'industria pesante sono stati, per secoli, i poeti e i filosofi più raffinati e sensibili, così i russi, apparentemente glaciali, hanno lasciato invero opere di una delicatezza e allo stesso tempo di una profondità psicologica spaventose. nel milieu più basso, la tradizione popolare consegna canzoni e favole che traboccano di sentimento (non è un caso che il più grande studioso della fiaba sia un russo).
a volte esagerano, come nel racconto che segue, più straziante di una favola di Wilde.

una bambina graffia l'auto del padre, alla quale questi è molto affezionato. il padre la punisce severamente picchiandola sulla mano con la quale ha compiuto il misfatto. così severamente che la bambina viene portata in ospedale. i medici dicono che dovranno amputare alla piccola  tutte le prime falangi della mano. la piccola, pentita, cerca di rassicurare il padre e gli dice: "non ti preoccupare papà, tanto ricrescono". il padre, distrutto, si toglie la vita. poco prima aveva guardato meglio il graffio sull'auto. la bambina aveva scritto: "papà, ti amo".
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avevo detto che ci sarei andato a Verona a suonare. saremmo stati tre gruppi, una cosa in famiglia, il locale solo per noi, e per fine serata la torrida prospettiva di una jam. ma, per motivi di cui non ero responsabile, s'erano ormai fatte le otto passate, e mio fratello era senz'altro già partito; partendo a quell'ora non sarei arrivato prima delle dieci. sarei stato, presumibilmente, tra amici, ma alla fine forse non ne valeva la pena, visto che saremmo dovuti tornare la sera stessa.
optai, optammo, per un aperitivo. la successiva passeggiata ci condusse davanti a una delle più belle e più antiche basiliche di Milano. nonostante l'ora, era aperta. evidentemente qualche liturgia extra. entrammo. davanti all'altare, un gruppo di bambini seduti. alla loro sinistra, ragazzi che cantavano e suonavano la chitarra.
in quel momento capii: ero lì che dovevo andare, non a Verona.

giovedì 1 maggio 2014

della superiorità morale dei francesi

sciovinisti e gozzoni e tutto, ma a loro non gli viene neanche in mente di usare la parola selfie.